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La memoria di Antonio Segni (Sassari 2 febbraio 1891– Roma 1° dicembre 1972) appare legata più alla drammatica circostanza della repentina interruzione del suo mandato presidenziale ed alle cause che la determinarono dopo appena due anni dall’ ascesa al “Colle”, che alla sua dimensione di statista. Ordinario di Diritto processuale civile, autore di importanti pubblicazioni, per il suo spessore scientifico fu nominato membro della prestigiosa Accademia dei lincei. Nel rapporto tra diritto e politica, considerò la seconda come un mezzo per la realizzazione degli ideali di giustizia che costantemente ne ispirarono l’agire, in perfetta coerenza con il suo sentire religioso, ricusando – viceversa – ogni subordinazione della giustizia alle ragioni della politica contingente, agli interessi di parte. Fu tra i primi iscritti nel Partito popolare, e dopo la lunga parentesi del periodo fascista, fu tra i fondatori della Democrazia cristiana, di cui divenne uno dei leader più rappresentativi a livello nazionale, venendo eletto all’Assemblea costituente nel 1946 e, successivamente, in Parlamento. Fu poi ministro dell’Agricoltura, della Pubblica Istruzione, della Difesa, degli Esteri, ed infine presidente del Consiglio.

Da ministro dell’Agricoltura (1948-50) manifestò – pur essendo egli stesso un grande proprietario terriero – una particolare sensibilità verso il mondo rurale, che si tradusse in un articolato progetto avanzato di Riforma agraria. Il passaggio della proprietà agli agricoltori-coltivatori più volenterosi e tecnicamente capaci, in tal modo promuovibili dallo status di braccianti o compartecipanti, a quello di piccoli proprietari o di enfiteuti, si sarebbe rivelato “come linea di sviluppo economicamente sano in tutta l’Europa occidentale, oltre che socialmente produttivo e di maggiore stabilità e remunerazione del lavoro contadino”. La legge Segni, redatta con la chiarezza necessaria ad evitarne stravolgimenti interpretativi, creò nel 1950 circa 80mila nuove aziende familiari e ne ampliò 50mila preesistenti, con l’approntamento di case, infrastrutture, bonifiche, irrigazioni, miglioramenti fondiari e la valorizzazione della dimensione aziendale familiare. A Palazzo Chigi si impegnò per una politica di riforme sociali, che spaziavano dalle misure di sostegno ai salariati agricoli, ai contributi per l’edilizia scolastica, in una visione di progresso nella quale comunque volle mantenere le distanze dai socialisti, che non considerava affidabili in ragione dei loro ancor stretti legami con il Pci.

La sua elezione al Quirinale, avvenuta il 6 maggio 1962 fu secondata dal disegno del segretario democristiano, on. Moro, di bilanciare il quadro politico con un capo dello Stato moderato, che fosse di contrappeso alle aperture governative verso il centro-sinistra. Anche nella nuova funzione al vertice dello Stato, continuò a mantenere sempre vivi i legami con la sua terra e con Sassari in particolare (dove in gioventù aveva sposato Laura Caprino, madre dei suoi quattro figli): “Vorrei prendere tanta Sardegna e portarla con me al Quirinale” disse durante il volo compiuto subito dopo l’elezione. Figura assai austera e riservata, con venature di sorprendente arguzia, Segni aveva il tratto di un gentiluomo di stampo antico, profondamente attaccato agli affetti familiari ed ai valori di una fede cristiana non di maniera, ma tradotta in un preciso e coerente impegno etico per l’affermazione di una giustizia non meramente formale, ma sostanziale. Il che voleva dire adottare comportamenti di onestà esemplare, di probità, di assoluto, personale disinteresse nell’esercizio di funzioni politiche (la riforma agraria era stata illuminante al riguardo), di solidarietà verso le classi disagiate.

La ricordata sensibilità verso il mondo rurale, non si limitò agli aspetti tecnico-economici legati alla riforma da lui ideata, ma divenne un imperativo morale indirizzato ad alleviare la miseria dei contadini, resa ancor più stridente nel confronto con la condizione dei latifondisti, da cui emergeva il divario sociale che la guerra aveva accentuato. Della natia isola aveva la fermezza risoluta, ingentilita dal garbo dell’aristocratico naturalmente affabile e cortese, che si appalesava anche nella dolcezza del sorriso buono che ne illuminava lo sguardo, altrimenti velato da sottile melanconia. Rigoroso nel tener saldi i propri principi, era altrettanto rispettoso delle opinioni altrui, affidando alla ragionevolezza dei suoi discorsi la forza argomentativa del confronto con gli interlocutori politici di schieramenti avversi. “Uomo esile, più che magro, un volto esangue, i capelli bianchi e soffici come la seta, una sciarpa bianca al collo quasi tutto l’anno e due mani lunghe, affusolate, sempre sollecite a salutare la folla. E così che Antonio Segni si presenta alla memoria di tutti”: è questa la magistrale prosa del giornalista Nicola De Feo, che rende con rara efficacia ritrattistica l’aspetto dell’anziano presidente.

L’11 maggio 1962 giurò innanzi al Parlamento riunito in seduta comune e lesse il messaggio di insediamento, ricordando i valori della libertà, della giustizia e dell’indipendenza per i quali si erano immolati i protagonisti del Risorgimento e della Resistenza (menzionata in ideale continuità col primo, quale “secondo Risorgimento”). L’Europa avrebbe potuto più efficacemente adempiere al dovere delle Nazioni più progredite, di prestare il necessario aiuto a quelle che solo recentemente si erano affacciate alla libertà, per consolidarne, unitamente alla conseguita indipendenza, il progresso spirituale e materiale. La tutela in sede internazionale dei valori richiamati, aveva supportato la convinta adesione alla Comunità atlantica dell’Italia, la quale era altresì impegnata al proprio interno a conseguire livelli di giustizia sociale sempre più elevati e duraturi. Il capo dello Stato, in una cornice di maggiore benessere economico e di minori sperequazioni sociali, si soffermò ad evidenziare l’importanza della sicurezza sociale, del diritto al lavoro ed all’istruzione, per “perseguire effettivamente l’eguaglianza nei punti di partenza dei cittadini”.

Nella parte finale del citato discorso, segnò quella che sarebbe stata la sua interpretazione del ruolo presidenziale, marcando in tal modo – oggettivamente – le distanze dal suo immediato predecessore : “non spetta a me determinare gli indirizzi politici nella vita dello Stato – disse – prerogativa questa del Governo della Repubblica e massimamente di questo libero Parlamento”, cui competevano, nel rapporto dialettico tra maggioranza ed opposizione “le scelte più appropriate al bene comune”; ma come Capo dello Stato avrebbe tutelato l’osservanza della Costituzione ed avrebbe operato affinché fosse garantita “l’unità civile e morale della nazione italiana, una e indivisibile”. Il fine giurista non poteva tralasciare una conclusiva riflessione nel rapporto tra diritto ed etica, per cui osservò che al di là del rispetto doveroso delle leggi , al di là degli orientamenti politici di ciascuno, l’attività di coloro che erano preposti ai pubblici poteri, per essere recepita dai cittadini come rispondente a criteri di reale equità, doveva trarre il suo fondamento nelle grandi virtù civili, quali “la sanità del costume pubblico e privato, lo spirito di morale fortezza e il senso di equanime giustizia”.

Al termine del primo anno di presidenza (1962) nel corso del quale la vita nazionale aveva avuto i suoi momenti salienti nel primo Governo con l’appoggio esterno dei socialisti, nell’apertura del Concilio ecumenico, nella nazionalizzazione dell’energia elettrica, nella riforma introduttiva della scuola media unificata, nel misterioso incidente aereo di Enrico Mattei, il presidente pronunziò il tradizionale discorso augurale agli italiani. In tale circostanza sottolineò – tra l’altro – l’attivo contributo del nostro Paese alla causa della pace e la convinta azione per il consolidamento della solidarietà occidentale, speculare all’impegno per assicurare – all’interno – una più larga partecipazione delle classi meno abbienti allo sviluppo economico, con il conseguimento di un più alto tenore di vita. Al fine dell’ascesa del ceto popolare, non bastava una migliore redistribuzione dei beni, ma occorreva che fossero rimossi, in ossequio al dettato costituzionale, tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitando – di fatto – la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, ne impedivano il reale sviluppo personale e l’effettiva partecipazione alla cosa pubblica.

Il 1963 fu denso di tragici avvenimenti di portata nazionale, quali la tragedia del Vajont (Pordenone) il 9 e 10 ottobre, ed internazionale, quali la scomparsa di papa Giovanni XXIII il 3 giugno e l’assassinio del presidente americano John Fitzgerald Kennedy il 22 novembre. A livello istituzionale, alla politica di “astensione” dei socialisti, subentrò il loro ingresso ufficiale nel Governo, presieduto da Aldo Moro, il 5 dicembre 1963, destinato a durare nel pieno dei suoi poteri fino al 25 giugno 1964, allorché sarebbe stato messo in crisi sul tema del finanziamento alle scuole private, inviso al Pri come al Psi. Nella circostanza della festa del IV Novembre, il presidente della Repubblica inviò un messaggio alle Forze Armate, nel cui contesto disse – tra l’altro – che esse si apprestavano a celebrare la loro giornata “in lieta comunanza con il popolo, il quale ritrae ed onora in esse i suoi stessi figli , chiamati ad assolvere verso l’Italia il dovere di difenderla, per garantire a tutti gli italiani i loro beni più cari: l’indipendenza, la libertà , la pace, la giustizia, e gli ideali tramandati dai padri: la Patria e la Famiglia”. Appare difficile ipotizzare che un uomo guidato da siffatti sentimenti, nella cornice di un’avvertita simbiosi tra popolo ed esercito, potesse configurare un ruolo eversivo dei militari o di parte di essi, nei confronti di uno Stato garante dei valori che il presidente medesimo riteneva sacri.

Tra detti valori, sostenne la necessaria finalizzazione della ricerca scientifica e della cultura allo sviluppo spirituale, in assenza del quale, disse: “Essi sarebbero condannati ad esaurirsi in un materialismo di cui lo stesso progresso della scienza si sta incaricando di mostrare l’infondatezza e le meschinità, dinanzi ai grandi problemi che oggi l’uomo deve affrontare”. Tra questi, un ruolo prioritario spettava alla tutela della pace, nel quadro della difesa della propria indipendenza e della propria libertà da ogni minaccia, in prospettiva di “una sempre maggiore comprensione fra i popoli d’ogni razza e d’ogni ideologia, indipendentemente da ogni divergenza di interessi”. Il 1964 fu l’ultimo della breve e travagliata presidenza, che aveva visto come momenti salienti il prestito internazionale erogato il 14 marzo dagli Usa e dal Fondo monetario internazionale all’Italia per fronteggiare la crisi economica in atto; la caduta del governo Moro il 26 giugno e le fibrillazioni che precedettero il varo del successivo, parimenti guidato, il 22 luglio, ma con un programma di riforme economico-sociali meno radicale.

Il presidente Segni, assai preoccupato per le conseguenze che la crisi economica avrebbe potuto produrre in termini di destabilizzazione sociale, preoccupazione peraltro trasversale ad alcuni settori dell’industria, della politica e delle Forze Armate, aveva infatti preso in considerazione un ridimensionamento dell’esperimento del centrosinistra. Pertanto i socialisti si erano risolti a riprendere la collaborazione di governo, rinunziando a nuove nazionalizzazioni, alla rapida attuazione delle Regioni e ad una legge urbanistica che avrebbe comportato ampi espropri di terreni edificabili, onde evitare – altrimenti – il varo di un nuovo Esecutivo a carattere moderato. Nelle more, aveva suscitato viva apprensione il fatto che il Capo dello Stato avesse ritenuto di consultare, oltre ai rappresentanti delle forze politiche, il generale Giovanni de Lorenzo, capo del Sifar (Servizio informazioni forze armate) ed il generale Giuseppe Aloia, capo di Stato Maggiore dell’Esercito, per sapere se, in caso di ricorso anticipato alle urne, vi sarebbero stati dei pericoli per l’ordine pubblico, ricevendone ampie assicurazioni sull’inesistenza di qualsivoglia rischio di tumulti di piazza, in grado di mettere a repentaglio le istituzioni democratiche. L’anomalia delle consultazioni prodromiche alla formazione del nuovo Governo, fu che al Quirinale si alternarono i capigruppo parlamentari, i presidenti dei due rami del Parlamento, gli ex capi di Stato e di Governo, con i vertici militari, quale conseguenza estrema dell’ansia costante che attanagliava l’Inquilino del Colle circa le sorti della Patria tanto amata, ove i paventati tumulti di piazza avessero messo in pericolo le istituzioni democratiche.

Pietro Nenni aveva parlato di “tintinnar di sciabole”; ma che L’Italia in quel frangente fosse stata sull’orlo di un golpe, malgrado l’articolo apparso postumo con tale tesi sull’Espresso del 17 maggio 1967, non fu mai dimostrato nelle oltre duemila pagine dell’apposita Commissione parlamentare di inchiesta, mentre è plausibile che i contatti tra il capo dello Stato e le gerarchie militari mirassero a predisporre le misure atte a fronteggiare eventuali tumulti di piazza. Segni – lo avrebbe ricordato in seguito il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, commemorandolo nel 1991(centenario dalla nascita) – aveva avuto la preoccupazione costante delle minacce incombenti dall’Est comunista ed aveva invitato, conseguentemente, a curare le Forze Armate convenzionali, per scongiurare i rischi di una difesa atomica, prendendo a cuore il correlato aspetto dell’ effettiva capacità dei Carabinieri a mantenere l’ ordine interno, dietro le linee di un’eventuale resistenza militare avverso aggressioni esterne.

Queste erano state le sue angosce, ma – tenne a precisare l’onorevole Andreotti – non andava dimenticato che la commistione tra comunismo interno ed internazionale “non era allora fantasiosa”.  Il 7 agosto, nel pieno di un’estate densa di emozioni per l’anziano Statista, aveva termine de facto, seppure non ancora de iure, il mandato di Segni, che – secondo allo scarno comunicato emesso dalla presidenza della Repubblica – era stato improvvisamente colpito da “disturbi circolatori cerebrali”. Il grave evento si era verificato nel corso di un drammatico colloquio (registrato dal Sifar) con Moro e con il ministro degli Esteri Giuseppe Saragat, avente per oggetto un movimento di diplomatici, ma poi degenerato per l’accusa da quest’ultimo rivolta all’anziano presidente, di “aver tramato con i Carabinieri”: dopo di ciò Segni pronunziò delle parole “come se avesse una caramella in bocca” e si accasciò. Prontamente soccorso, riprese lentamente i sensi dopo circa mezz’ora.

Si trattava di un caso assai serio e denso di incognite non solo sotto il profilo umano e clinico, ma anche sotto quello politico ed istituzionale. Migliaia di cittadini di ogni ceto sostavano a lungo innanzi al Quirinale, mentre dalla sua Sassari fervevano preghiere per ottenere la guarigione di “ziu Antoninu”. L’11 agosto il presidente del Senato, Cesare Merzagora, assunse la supplenza al vertice dello Stato in base alla Costituzione; ma il 18 dicembre il presidente Segni consegnò l’atto di dimissioni, terminando così una carriera istituzionale che aveva avuto momenti intensi dagli albori della Repubblica. Giovani Leone, da capo dello Stato, volle ricordarlo nella circostanza dello scoprimento di un busto in onore dello scomparso: “Nella personalità di Antonio Segni – disse – confluivano il rigore morale della sua coscienza di credente, la linearità di pensiero e azione del finissimo giurista, il vigore del suo carattere sardo, tutto ciò fuso ed armonizzato dalla consapevolezza che ogni servizio reso alla vita pubblica, deve essere illuminato esclusivamente dal senso del dovere”.

Nello specifico del mandato presidenziale del predecessore, Leone rese toccante omaggio alla memoria del leader sardo con queste parole: “Egli concepì questo ufficio come dedizione assoluta, come sacrificio, a cui subordinava anche le esigenze della vita quotidiana, Segni non solo obbediva sempre al senso del dovere, che è patriottismo, ma riusciva a trasfondere, ad imporre agli altri questo sentimento e questa concezione. Fu proprio questa sua coscienza del dovere, questo senso acuto, quasi esasperato della responsabilità, che determinò, primo, la grave malattia che quasi lo stroncò, costringendolo ad allontanarsi dal massimo ufficio dello Stato e, poi, lo condannò per 8 anni ad un tormentoso calvario”. La sensibilità giuridica di Segni si era evidenziata nell’uso, invero assai sobrio, del potere di messaggio alle Camere, proponendo – tra l’altro – di introdurre nella Costituzione il divieto di immediata rielezione del capo dello Stato. Costantemente attento alla correlazione tra diritto, economia ed ordinato vivere civile, nel breve corso del suo mandato aveva rinviato otto volte in Parlamento dei Disegni di legge prima di promulgarli, in quanto privi della necessaria copertura finanziaria.

Statista anche di respiro internazionale, Segni firmò con Gaetano Martino, i due Trattati di Roma entrati in vigore il 1º gennaio 1958, che istituirono e disciplinarono, la Comunità economica europea e la Comunità europea dell’energia atomica. Come il predecessore Luigi Einaudi, evidenziò l’anacronismo della figura dello Stato sovrano, ad esso preferendo l’edificio comunitario, dove il momento coesivo preminente doveva essere quello morale: “Combinazione di elementi materiali e spirituali – sottolineò al riguardo – hanno così creato lo spirito comunitario delle iniziative non più necessariamente nazionali”, con effetti accresciuti nella costante ricerca di quel “bene comune” che era il sale della vera democrazia. L’Europa doveva allargarsi non solo su parametri economici, ma soprattutto su affinità politico-sociali:” Solo una forza unitaria europea – disse – che abbia in sé eliminato le vecchie rivalità e gli egoismi nazionali, può contribuire in maniera decisiva, al pacifico ed equilibrato sviluppo della vita internazionale”. L’Europa non aveva senso se non proprio come espressione di libertà: “quest’Europa vive, e può vivere – soggiunse – appunto perché è un’affermazione spirituale, al di fuori della forza bruta, anzi contro di essa”. Doveva poi essere “unita da vincoli di fraterna associazione paritaria con gli Stati Uniti, in seno alla comunità Atlantica che, a sua volta, noi concepiamo non come blocco geografico o militare, ma anzitutto come ampia ed aperta comunità ideale”.

L’infaticabile impegno europeista del nostro capo dello Stato, conseguì ad Aquisgrana il prestigioso riconoscimento del premio “Carlo Magno”, che veniva così conferito per la seconda volta ad un italiano, dopo Alcide De Gasperi. Disse allora che l’Europa doveva altresì farsi carico delle aspirazioni di “grandi masse afflitte dalla fame e dalle privazioni”, così come “di quelle di popoli che hanno conosciuto più volte l’invasione straniera”, e che soffrivano ancora delle conseguenze della guerra. In una fase di crisi valoriale come questa, che innanzi alla tragedia del Coronavirus coinvolge l’idea stessa di Europa, crediamo che non sarebbe opera vana dare giusta luce al ruolo di Segni come europeista convinto, come lungimirante fautore del moderno sviluppo dell’agricoltura, come sostenitore appassionato della solidarietà internazionale, come postulatore di un pluralismo sociale vivificato dall’allargamento del ceto medio, come – ma anzi prima di tutto – integerrimo servitore dello Stato, alieno da ogni personale, egoistico interesse.

Aggiornato il 03 aprile 2020 alle ore 13:36