Il gioco del cerino

Basterebbe pensare a Boris Johnson e al funzionamento di una democrazia seria per capire la differenza col teatrino della nostra, in Inghilterra infatti Boris scelse di andare al voto pur di stoppare veti, trappole e defezioni sia nel parlamento che nel suo partito. Insomma il premier britannico senza paura e a testa alta chiese il giudizio degli inglesi visto che alla camera si giocava a rimpiattino sul futuro della Gran Bretagna, una scelta saggia democratica e soprattutto da statista vero.

Ecco perché scriviamo basterebbe guardare a Johnson e al Regno Unito, per valutare quanto da noi con i giallorossi, la democrazia parlamentare abbia toccando il fondo in tema di affidabilità, coerenza e rappresentatività. Del resto non passa giorno senza che si sfiori la crisi, che volino stracci fra alleati, che ci siano insolenze incrociate e ultimatum su qualcosa, senza che la conta dei numeri per tirare avanti sia legata alla tenuta degli impegni oppure al passaggio di transfughi e dissidenti.

Per farla breve che si tratti dei cosiddetti responsabili di Forza Italia pronti a soccorrere Giuseppe Conte, oppure dei delusi di Italia viva disponibili a mollare, o ancora di qualche gruppetto di grillini in procinto di saltare il fosso, l’esecutivo giallorosso non fa altro che ballare a più non posso. Tanto è vero che il premier è dovuto salire al Quirinale non solo per fare il punto di una situazione giunta al limite del sopportabile, ma per verificare quanto sia possibile resistere senza naufragare contro gli scogli di un’alleanza in quotidiana preda del fuoco amico.

Sia chiaro in Italia siamo abituati a vederne di tutti i colori e il trasformismo è una tecnica nostrana che ha fatto scuola, ma con questa maggioranza si sta toccando una vetta francamente fino ad oggi ignota, un gioco del cerino che prima o poi incendierà una casa nata male e arredata peggio. Insomma si sapeva tutto a partire dalla conferma di un Premier pronto a guidare due governi opposti, si sapeva che Maateo Renzi un po’ per rivalsa e molto per natura avrebbe fatto il diavolo a quattro, si sapeva che i 5 stelle fossero allo sbando e fuori controllo, si sapeva che nel Pd esistessero tensioni.

Come erano noti uno per uno i nodi insormontabili di posizioni contrapposte sulla prescrizione, sulle concessioni, sui decreti sicurezza, sulle intercettazioni, per non parlare della legge elettorale e del reddito di cittadinanza, insomma un’alleanza senza speranza. Oltretutto parliamo di temi fondamentali mica robetta, insomma una materia intorno alla quale trema sia l’economia e sia la democrazia, dal garantismo all’assistenzialismo, allo statalismo alle liberalizzazioni, dalla difesa dei confini alle frontiere aperte.

Come se non bastasse si è fatto finta di non vedere quanto importante fosse il sentimento popolare pensando che bastassero un po’ di pescatori di sardine per bilanciare una marea di cittadini a favore del centrodestra e di Matteo Salvini. Da ultimo si è trascurato il fatto che sfuggisse di mano questo giochetto, perché da una sfida all’altra, di veto in veto, da una tigna a quella opposta, si è arrivati all’insolenza, al discredito incrociato, alla sfiducia pubblica e al duello più sfrontato fra leader e alleati.

Ecco il motivo per cui resta solo di capire chi resterà col cerino in mano, chi si brucerà, chi salterà per aria portandosi dietro tutto il cucuzzaro, perché sia chiaro oramai tornare indietro non è possibile, la linea della pace è superata è la frittata più che fatta s’è bruciata. Insomma questione di tempo, di espediente, di una scusa, ma l’alleanza è finita, potrà resistere per un po’, per qualche nomina, poltrona, per qualche “Domenico Scilipoti” eventuale, ma le bugie hanno le gambe corte e si sapeva da settembre che per il Conte bis le cose sarebbero finite tutte storte.

Aggiornato il 19 febbraio 2020 alle ore 13:44