Lo Stato di diritto e l’astuta prepotenza dei suoi interpreti

C’è lo Stato di diritto e c’è chi è delegato dalla Costituzione in regime di monopolio pubblico (talvolta privato) ad interpretarlo. A vederla con chiarezza, realismo e onestà intellettuale, il caso Italia di cui parlava Marco Pannella ormai buonanima era tutto qui. Da una parte il diritto certo che non si sottrae all’ermeneutica ma di certo non va interpretato secondo le mode o peggio ad usum delphini. Dall’altra il diritto interpretato, discutendone prima nei salotti televisivi. Una cosa che, come a si dice a Roma: “Nun se po’ vede”. E, a proposito di delfini, ormai la politica italiana è un delfinario.

Vige quindi l’astuta prepotenza di chi può approfittarsi in regime di vacatio politica permanente e sostanziale – sostituita dal mero accaparramento e mantenimento del pur effimero consenso contingente – dello status quo. Ed ogni giorno la cosa è resa più palese allorché le campane della chiesa giustizialista sottolineano, ad esempio nelle montature propagandistiche da pretesa brillante operazione dei tg locali, i rintocchi del nostro immaginario ormai malato. Dall’Ilva alle alluvioni, tutto è in mano a una toga della magistratura. Un Paese infernale, visto dall’estero.

Il problema della giustizia e della sua amministrazione coincide con la tragedia di un sacerdozio interpretativo ormai stantio e ridotto a spettacolarizzazione (spesso elemosinata) da reality show. Loro intervengono sempre. Nei primi quarant’anni di vita della Repubblica la magistratura esisteva lo stesso, era rispettata e onorata, e operava con alterne fortune come oggi. Ma i problemi dell’arretrato e delle carceri almeno fino all’epoca del terrorismo non erano paragonabili. Poi sono arrivati i pm sociologi del dopo sessantotto e, quel che è peggio, anche i giudicanti si sono buttati a pesce sul sociologismo, quando non sulla speculazione teoretica.

Dopo la caduta del Muro di Berlino e di quella propaggine italiana che si chiamava consociativismo sottobanco tra Dc e Pci (con il Psi a fare da variabile tra i due) apparve come per miracolo il Tonino Di Pietro nazionale. Misteriosamente evocato dal nulla e in breve assurto a lavacro esistenziale, volente o nolente, per tutti noi. Da quel momento la lotta alla corruzione passò sopra tutto e tutti. Anche sopra il benessere di un Paese. Improvvisamente ridotto al silenzio o a invocare le manette per i potenti. Nonché alla soggezione psicologica verso chi aveva la toga dalla sua parte. Tutti travolti da un insolito destino. Tutte persone in seguito stroncate dalla nuova miseria delle classi medie. Mai calcolate nelle statistiche del buonismo pietistico nazionale.

Per farla breve, il paradosso è che oggi comandano i pm e alcuni giudici anche se tutto sommato ne farebbero a meno. Quello che è oggettivo è il persistere di un bisogno di supplenza “aliunde” della politica. Purtroppo “aliunde” arriva sempre da una parte sola. La loro. A questa potenza di fuoco, che alcuni prepotenti possono sempre usare per diventare famosi e andare in tv, si è aggiunta da un po’ di tempo un’operazione di induzione collettiva al senso di colpa per non avere pagato multe o tasse. Magari per legittima difesa o per mantenere il posto agli operai. Il risultato di questa “geometrica potenza” è che presto, da noi, film in realtà bellissimi (da vedere) come la “Le vite degli altri”, purtroppo si interpreteranno di persona tutti i giorni. Tutti attori forzati dal fisco e dalle manette. E arriverà un giorno che qualcuno dirà che “bei tempi quando i film sulla ex Germania Est... li vedevamo al cinema o in tv”.

Aggiornato il 20 novembre 2019 alle ore 10:48