Ride bene chi ride ultimo

martedì 10 settembre 2019


Mentre in piazza, noi c’eravamo, migliaia e migliaia di persone manifestavano chiedendo il voto contro lo sdegno per un Governo nato sull’ipocrisia, il Premier in aula, come se nulla fosse, cantava la sua vittoria di Pirro.

Innanzitutto vogliamo certificare che ieri, girando nelle vie del centro di Roma, abbiamo incontrato gente comune, dai giovani agli anziani, famiglie intere e gruppi di persone normali scese in piazza solo per confermare il disappunto verso l’ennesima manovra di palazzo messa in atto pur di evitare il voto. Poco conta la solita battaglia sui numeri della manifestazione, perché una cosa è certa, ieri quanti che fossero i presenti rappresentavano per delega milioni e milioni di italiani che avrebbero voluto le elezioni, punto.

Ecco perché al netto di qualche idiota che, almeno noi per fortuna, non abbiamo visto né incontrato, messo lì a fare saluti beceri e demenziali, tutti i presenti protestavano con forza e voce alta in modo civile e composto. Eppure il vero focus della giornata scorsa non è stato il corteo, per quanto importante, ma il discorso del Premier alla Camera per la fiducia. Giuseppe Conte, infatti, parlava come se fosse arrivato lì in sostituzione di un altro premier sfiduciato, a capo di un Esecutivo nuovo di zecca, sostenuto da una alleanza armonica e coesa dalla stima, votato da una coalizione unita dalla comune ammirazione politica.

Perché sia chiaro, se è vero come è vero che la Costituzione parli di maggioranza parlamentare, è altrettanto vero che sottintenda la reciproca considerazione, l’indispensabile comune reputazione, le cosiddette affinità elettive. Insomma, parliamoci chiaro, sfidiamo chiunque a giurare che i costituenti pensassero di mettere assieme per fare numero tutti quelli che fino al giorno prima si fossero insultati, offesi, ingiuriati, accusati in ogni modo possibile. Viene da chiedersi dunque se per i padri costituenti gli impegni sull’onore, sulla parola di uomini e di donne coerenti, sui giuramenti solenni agli elettori, avessero o meno un significato determinante. Perché delle due l’una, o per i firmatari della carta la fiducia personale, l’affidabilità politica e la certezza delle opinioni espresse non avevano senso, oppure di sicuro non si riferivano alla possibilità di mettere assieme una maggioranza come l’attuale.

Adesso si dirà che erano altri tempi, che allora una stretta di mano valeva più di una firma, che ci si sfidava a duello per l’onore, che il linguaggio politico era diverso; insomma quello che si vuole, ma la carta è quella mica è cambiata. Alla base di quella carta non solo c’era la sovranità popolare, ma vi era la certezza di potersi affidare alla parola di chi quella sovranità era deputato a rappresentare e rispettare, vi era l’assicurazione che gli impegni solenni assunti coi cittadini fossero il verbo e non simulazioni.

Bene anzi male, è esattamente quello che non c’è in questa alleanza; parliamo di politici che hanno giurato pubblicamente il contrario di quello che hanno fatto, che hanno promesso solennemente ai cittadini l’esatto inverso di ciò che ieri abbiamo visto alla Camera. Allora noi vi chiediamo quale fiducia si può dare a chi ha mentito sapendo di mentire, quale credito si può aprire nei confronti di chi si rinneghi, basterebbe riascoltare le dichiarazioni pubbliche sui giudizi reciproci tra grillini e Pd, per capire.

Ecco perché Conte cantava una vittoria di Pirro, chiedeva una fiducia che la sua maggioranza ha già dissipato, un credito politico a una alleanza priva di coerenza e soprattutto di coscienza. Del resto chi manchi di parola una volta, è chiaro che possa farlo ancora, sta tutta qua la ragione per cui la Costituzione non recitava certo a favore di una maggioranza purché sia e, visto che siamo in democrazia, dite la vostra che ho detto la mia.


di Alfredo Mosca