Come pianificare il territorio

Se effettuassimo una analisi storica sui tentativi operati dal legislatore per garantire degli strumenti capaci di “controllare” e “gestire” ciò che definiamo territorio in un approccio superiore alla dimensione urbana e residenziale, superiore alla logica del costruito e rivolta alla logica del non costruito, troveremmo come riferimento interessante gli articoli 5 e 6 della Legge 1150 del 1942. In particolare riporto di seguito tali articoli:

Articolo 5. Formazione ed approvazione dei piani territoriali di coordinamento
1. Allo scopo di orientare o coordinare l’attività urbanistica da svolgere in determinate parti del territorio nazionale, il ministero dei Lavori pubblici ha facoltà di provvedere, su parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici, alla compilazione di piani territoriali di coordinamento fissando il perimetro di ogni singolo piano.
2. Nella formazione dei detti piani devono stabilirsi le direttive da seguire nel territorio considerato, in rapporto principalmente: a) alle zone da riservare a speciali destinazioni ed a quelle soggette a speciali vincoli o limitazioni di legge; b) alle località da scegliere come sedi di nuovi nuclei edilizi od impianti di particolare natura ed importanza; c) alla rete delle principali linee di comunicazione stradali, ferroviarie, elettriche, navigabili esistenti e in programma.
3. I piani, elaborati d’intesa con le altre Amministrazioni interessate e previo parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici (parere soppresso - n.d.r.), sono approvati per decreto reale su proposta del ministro per i lavori pubblici, di concerto col ministro per le comunicazioni, quando interessino impianti ferroviari, e con il Ministro per i trasporti e l’aviazione civile, ed il Ministro per l’industria, commercio e artigianato.
4. Il decreto di approvazione viene pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica (ora sul Bollettino Ufficiale della regione - n.d.r.), ed allo scopo di dare ordine e disciplina anche alla attività privata, un esemplare del piano approvato deve essere depositato, a libera visione del pubblico, presso ogni Comune, il cui territorio sia compreso, in tutto o in parte, nell’ambito del piano medesimo.

Articolo 6. Durata ed effetti dei piani territoriali di coordinamento
1. Il piano territoriale di coordinamento ha vigore a tempo indeterminato e può essere variato con decreto (reale) previa l’osservanza della procedura che sarà stabilita dal regolamento di esecuzione della presente legge.
2. I comuni, il cui territorio sia compreso in tutto o in parte nell’ambito di un piano territoriale di coordinamento, sono tenuti ad uniformare a questo il rispettivo piano regolatore comunale.

Pensate alla lungimiranza del legislatore: nel 1942 non erano state ancora istituite le Regioni, il ministero dei Lavori pubblici era il riferimento unico nella gestione del territorio. Vi era una interpretazione della risorsa “territorio” tale per cui si programmava e pianificava lo spazio urbano mentre lo spazio extraurbano era una realtà che al massimo veniva presa in considerazione se coinvolta da scelte definite dall’organo centrale (strade, ferrovie, porti e aeroporti). C’era un discutibile confine tra la competenza dell’amministrazione comunale e quella di ciò che chiamavamo “Stato”. In realtà il Paese era un mosaico formato da tessere (le cosiddette realtà urbane) che inseguivano tutte una crescita della qualità dell’urbano, della qualità dei servizi offerti ma al massimo garanzie di collegamenti tra le singole realtà e i motori dell’economia e cioè strade, ferrovie, porti e aeroporti. In fondo avevamo e, purtroppo, abbiamo un mosaico formato da tessere completamente autonome e prive di un reciproco interesse a interagire con ciò che oggi chiamiamo “territorio”. Il Piano Territoriale di Coordinamento è il primo strumento, è il primo tentativo che ci fa capire che per offrire un tessuto connettivo al Paese era necessario raccontare nel Piano Regolatore Generale come si collocava quella realtà comunale all’interno di un ambito dimensionalmente più vasto ed articolato.

In realtà con tale strumento prendevano corpo e funzione le tessere e solo in tal modo sarebbe stato possibile costruire un “mosaico-piano”. Sarebbe stato possibile, se si fossero redatti in tutto il Paese i Prg e i relativi Ptc. Avremmo cioè avuto un vero quadro programmatico di ciò che definiamo “territorio”. Ora diventa impossibile perché è crollata la volontà strategica di ottimizzare al massimo la funzione delle realtà urbane, la funzione delle interazioni funzionali tra le realtà urbane. Eppure se esaminiamo i vari passaggi a valle del 1942 scopriamo che ci sono state tenta occasioni in cui sarebbe stato possibile reinventare il ruolo e la funzione dei Piani Territoriali di Coordinamento e invece sembra quasi che si è preferito lasciare a tale strumento un puro ruolo teorico privo di incisività. Le occasioni più rilevanti sono state il Dpr 8/72 con cui la competenza è passata dallo Stato (ministero dei Lavori pubblici) alla Regione che ha provveduto a predisporre tali strumenti ciascuna per il proprio ambito territoriale. Poi il decreto legislativo 267/2000 “Testo Unico delle Leggi sull’Ordinamento degli Enti locali” ha definito i ruoli e le competenze degli enti locali, riservando competenze di pianificazione territoriale alle Provincie. Poi c’è stata la Legge 56/2014 che ha dettato disposizioni in materia di città metropolitane, province, unioni e fusioni di comuni al fine di adeguare il loro ordinamento ai principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza.

La Legge precisa anche il concetto di “città metropolitana” definendola “ente territoriale di area vasta con le seguenti  finalità istituzionali generali: cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano; promozione e gestione  integrata  dei  servizi,  delle infrastrutture e delle  reti  di  comunicazione  di  interesse della città metropolitana; cura delle relazioni istituzionali afferenti al proprio livello,  ivi  comprese  quelle  con  le  città  e  le  aree metropolitane europee. Ebbene, questa ampia serie di occasioni non ha prodotto però finora la esigenza di chiarire come poter individuare una sede in cui trasformare questa assurda sommatoria di feudi, di contee, di marche che non consentono in nessun modo la creazione di un tessuto connettivo, quello territoriale, da definire e da governare. Faccio solo alcuni esempi:

Cosa dice o cosa ha detto la Provincia di Lecce sulla Trans Adriatic Pipeline (Tap), cioè che ruolo ha svolto nelle scelte assunte dalla Snam a valle della realizzazione delle opere.

Cosa dicono le Province e/o le Città metropolitane sulla identificazione e sulla gestione delle Zone Economiche Speciali (Zes).

Cosa dicono le Provincie e/o le Città metropolitane sulla evoluzione delle piastre logistiche diffuse sul territorio nazionale e sempre più autonome nei confronti di chi dovrebbe pianificare il territorio.

Cosa dicono le Provincie e/o le Città metropolitane sulla gestione degli esistenti e nuovi bacini idrici.

Potrei continuare e le risposte porterebbero tutte, a mio avviso, alla identificazione di quello che prima ho chiamato “Piano mosaico”. Un simile non facile ma essenziale lavoro dovrebbe essere svolto dalla Conferenza Stato-Regioni. Cambierebbero tante anomalie, verrebbero meno tante incomprensioni, perderebbero incisività tanti movimenti e capiremmo finalmente tutti la inutilità di ciò che chiamiamo “dibattito pubblico” perché la capillarità dei Piani Territoriali di Coordinamento annullerebbe atti di imperio dell’organo centrale.

(*) Tratto dalle Stanze di Ercole

 

Aggiornato il 07 agosto 2019 alle ore 13:40