Riforma della Giustizia o ennesima burla?

La parola “riforma” sembra essere attraente e suggestiva alle orecchie degli italiani, a prescindere dal suo contenuto. Ne approfitta il marketing politico più spregiudicato, che fa leva sulle aspettative degli italiani, per vendere molto spesso, sotto le sembianze dell’ennesima “riforma”, solo speranza e fumo, in una perenne dinamica di gratta e vinci; basta pensare alla recente “abolizione della povertà” mediante l’introduzione del “Reddito di cittadinanza.

Oggi commentiamo l’ultima trovata. L’annunciata “Riforma della giustizia”, della cui paternità si onora il Guardasigilli Alfonso Bonafede, è certamente da annoverare tra i più rilevanti e significativi contributi all’enorme montante dei gratta e vinci della politica italiana. Ne abbiamo la certezza, non in virtù di particolari doti di preveggenza, ma per il semplice fatto che la cultura politica espressa dal Movimento 5 Stelle, in tema di giustizia, si pone in rotta di collisione con le aspettative degli italiani: si desidera una minore “invadenza” della magistratura nella libera dinamica della società (per esempio, nel campo dell’affidamento dei minori), mentre i 5 Stelle sognano un’Italia “rivoltata come un calzino” dalla magistratura inquirente; gli italiani desiderano che il processo penale non duri in eterno, mentre i 5 Stelle vagheggiano la piena abolizione della prescrizione.

A questo proposito, la vicenda giudiziaria dell’ex ministro Calogero Mannino dovrebbe servire da monito. Pochi giorni fa è stata pronunciata la sentenza definitiva di assoluzione in relazione a fatti accaduti nel 1992! La Giustizia italiana nel 2019, a distanza di 27 anni dai fatti, gli restituisce l’onorabilità sociale sottratta; tuttavia non può restituire 27 anni di vita; né ripristinare una carriera politica miseramente interrotta. Ebbene, ogni cittadino italiano, grazie alle “riforme” dei 5 Stelle, già varate e in itinere, può divenire un ostaggio perenne della giustizia italiana dopo la sentenza di primo grado. Potrà ambire a superare la performance di Calogero Mannino, pregiandosi della veste di indagato prima e imputato poi, non solo per 27 anni, ma perfino 30 e perché no 40.

Non c’è che dire: da Beccaria a Bonafede si sono fatti tanti passi in avanti. Leggiamo cosa scrisse il grande maestro nel capitolo trentesimo del celebre Dei delitti e delle pene del 1764: “Conosciute le prove e calcolata la certezza del diritto, è necessario concedere al reo il tempo e mezzi opportuni per giustificarsi; ma tempo così breve che non pregiudichi alla prontezza della pena, che abbiamo voluto essere uno de’ principali freni de’ delitti. Un mal inteso amore della umanità sembra contrario a questa brevità di tempo, ma svanirà ogni dubbio se si rifletta che i pericoli dell’innocenza crescono coi difetti della legislazione. Ma le leggi devono fissare un certo spazio di tempo, sì alla difesa del reo che alle prove de’ delitti, e il giudice diverrebbe legislatore se egli dovesse decidere del tempo necessario per provare un delitto”.

Fin qui le parole di Beccaria, alte, solenni, ma si concederà un po’ vetuste. È necessario aggiornarle e adeguarle ai tempi. In questa fatica si cimenta oggi l’impareggiabile Bonafede con grande ardore. Credo che a lui si debba una delle più grandi scoperte di questo secolo. All’equazione massa=energia di Einstein è paragonabile, per acume intellettuale e portata applicativa, quella di Bonafede: tempo=giustizia. Una sentenza ben ponderata equivale a una sentenza giusta e, poiché riflettere e ponderare richiede tempo, lasciamo pure ai giudici tutto il tempo che desiderano, per approdare infine alla sentenza giusta. Ovviamente il cittadino non potrà dolersi delle lunghe riflessioni del giudice, perché queste tornano a suo vantaggio sotto forma di “Giustizia”.

In verità, l’odierno Guardasigilli non è l’unico “degno erede” di Cesare Beccaria, dal momento che percorre strade già tracciate dai suoi predecessori. Prima di lui, il suo conterraneo Angelino Alfano, aveva dato un prezioso contributo ad aggiornare l’eredità culturale del grande illuminista. L’aggiornamento è consistito – ça va sans dire – in un miglioramento delle garanzie del cittadino di fronte al potere coercitivo dello Stato; grazie all’angelo di nome “Angelino”, il cittadino italiano, ma in primis siciliano, ha ricevuto in dono la possibilità della confisca generalizzata del suo patrimonio, non in virtù di una condanna penale (sarebbe chiedere troppo), e nemmeno in virtù di una declaratoria di pericolosità sociale che lo riguarda, e nemmeno di una pericolosità altrui che lo lambisce; ma perfino in virtù della “pericolosità” di un soggetto terzo, oggi defunto. È incredibile, ma è così: ai sensi della legge n. 159/2011, che recepisce il principio della disgiunzione delle misure di prevenzione reali da quelle personali (introdotto col cosiddetto “Pacchetto di sicurezza” nel 2008-2009), oggi si può dichiarare la pericolosità sociale di Tizio, passato a miglior vita, e si confisca il patrimonio di Caio, mai condannato e mai dichiarato pericoloso.

Che reati ha commesso Caio? Nessuno. Quali indizi di pericolosità attingono Caio? Nessuno. Quale pericolosità può esprimere Tizio, oggi defunto? Nessuna. Perché allora si confisca il patrimonio di Caio? Semplice: per prevenire. Ma prevenire cosa? Difficile rispondere a questa domanda; ma lasciamola sospesa, appaghiamoci del fatto che gli eredi di Beccaria, per primi al mondo, hanno inventato una “prevenzione” senza pericolo; e per di più una “prevenzione” definitiva (giacché gli effetti della confisca sono definitivi). Questo magnifico sistema, che non si limita a reprimere i reati, ma pretende di estirpare perfino la “radice del male”, colorandosi di forti tinte etiche, oggi si estende, grazie alla recente, ineffabile legge cosiddetta “spazzacorrotti”, a tutta l’area dei rapporti dei privati con la Pubblica amministrazione. Ne consegue che il sospettato corrotto (o corruttore), in via meramente preventiva, può subire le misure denominate “antimafia”(ivi compresa la confisca del patrimonio).

Comunque, a dirla tutta, i coeredi di Beccaria sono in gran numero, poiché, a partire da “Mani Pulite”, la legislazione penale italiana ha progressivamente abbandonato il presidio della libertà dei cittadini e dell’autonomia della politica. Con la cancellazione dell’immunità parlamentare è stato incrinato il muro di contenimento, crollato poi del tutto con la Legge Severino, la quale in combinazione con l’abolizione della prescrizione, può dilatare sine die l’ineleggibilità degli amministratori. L’invasione di campo della magistratura è stata giustificata con la teoria della “supplenza”, ma è facile intendere che una corretta e rigorosa divisione dei poteri non ammette “supplenze” di alcun tipo.

Non si può dunque parlare di vera “riforma della giustizia” che non contenga alcuni punti cardini, per la tutela della libertà dei cives e il ripristino della corretta dinamica dei rapporti tra potere politico e ordine giudiziario. Non si può prescindere, per esempio, dalla divisione delle carriere tra il pubblico ministero e il giudice; dalla “depoliticizzazione” del Consiglio Superiore della Magistratura; dall’abolizione delle cosiddette “porte girevoli” (le quali consentono il reingresso in magistratura agli eletti nelle cariche politiche); dall’abolizione della “carcerazione preventiva” (nominalmente edulcorata in “custodia cautelare”) per tutti i reati (eccezion fatta per gli omicidi e i fatti di terrorismo). E vorrei aggiungere un altro punto fondamentale, del quale si parla assai poco: l’abolizione dei Tar (Tribunali Amministrativi Regionali), la cui giurisdizione si basa ancora sul presupposto ottocentesco che i cittadini non abbiano diritti, ma solo interessi, la cui lesione non dà luogo al risarcimento del danno, ma solo all’annullamento dell’atto della Pubblica amministrazione, la quale tuttavia può sempre emanare successivamente un altro atto lesivo del medesimo interesse.

Niente di tutto questo nell’annunciata riforma Bonafede. Tuttavia, per quello che è dato sapere, non mancano elementi condivisibili, per rendere un po’ appetibile la poltiglia. Si pensa di porre rimedio alle lungaggini del processo civile. Ottimo intendimento. Ma si può obiettare che dovrebbe mutare la “filosofia” stessa del processo civile, in modo che il giudice si trovi innanzi alle prove dei “fatti” già prodotte dalle parti, con assunzione di responsabilità, ed emetta celermente il suo giudizio. Si pensa di limitare la discrezionalità del pubblico ministero, nel privilegiare un’indagine piuttosto che un’altra. Ottimo intendimento. Ma la scelta dei criteri di priorità dovrebbe appartenere all’Autorità politica, la quale in ultima analisi risponde agli elettori della tutela dell’ordine pubblico, non già allo stesso Ufficio del pubblico ministero, assolutamente irresponsabile di fronte ai cittadini.

In ultima analisi, pare proprio di essere innanzi a una riforma che non riforma; che non cura alcuna delle gravi ferite della giustizia italiana. D’altronde il Movimento 5 Stelle, per la sua stessa ragione sociale, non può opporsi al dominante trend giustizialista, in ragione del quale un principe del foro come il professor Coppi pronuncia le sue accorate parole di indicibile e irrimediabile sconforto. Se, come pare, in Consiglio dei Ministri sono state queste le ragioni delle rottura, la Lega merita tutto il nostro plauso.

 

Aggiornato il 02 agosto 2019 alle ore 16:48