Vero lavoro o assistenzialismo?

Affrontando le questioni che il ministro Luigi Di Maio ha posto con una buona dose di sufficienza in ambito giuslavoristico e sul salario, bisognerebbe interrogarsi su quale tipo di cultura economica (se la possiede davvero) lo animi e pure dove vadano a parare le sue generiche frasi.

Che, a una sommaria analisi, potrebbero pure andar bene ed essere sottoscritte da tutti per quel che attiene il contrasto alle illegali modalità di sfruttamento dei lavoratori (in particolare giovani e immigrati irregolari), che è stato sempre combattuto a partire dal 1970 (lo Statuto dei Lavoratori è di allora), ma che, al di là dei titoli di stampa, non significano alcunché .

Perché l’interezza dei temi del lavoro e del giusto salario dovrebbero importare dei ragionamenti più dettagliati e assai più approfonditi in questa epoca. Non si sa con quale bacchetta magica, in un solo anno, egli abbia potuto del tutto interamente masticare, deglutire, digerire e ponderare le materie: ma, si sa, solo nel rappresentante del M5S alberga “il genio”.

Mi spiego: ben sapendo che di per sé il salario è solo il modo quantitativo per ristorare una certa prestazione d’opera mantenendo adeguate condizioni di vita per quel lavoratore, il voler ridurre tutto a una logica esclusivamente consumistica (con salari e prezzi che si rincorrono) potrebbe pure giustificare quell’altra “anomalia etica” civica: l’evasione o l’elusione di imposte o tasse.

Sebbene certa cultura “dell’arrangiarsi” abbia sempre fatto parte dell’educazione del ministro (papà Di Maio docet), un lavoro davvero “dignitoso” dovrebbe sempre importare uno stretto legame tra il valore dell’opera prestata e la paga ricevuta. Per non ricadere nella stessa logica assistenzialistica che ha ispirato il “Reddito di cittadinanza”.

Aggiornato il 31 luglio 2019 alle ore 15:48