Il tempo dei riformatori

mercoledì 17 luglio 2019


I lettori mi perdoneranno se oggi mi dilungherò più del solito, ma è necessario. Chi non ama le letture più articolate è dispensato dalla lettura. Infatti, l’altra sera, su La7, ho visto il programma “Atlantide” con Andrea Purgatori, intitolato “Ritorno a Tangentopoli”. Credo che si trattasse della replica di una puntata trasmessa l’inverno scorso. Evidentemente, la prima messa in onda deve essermi sfuggita. Sono rimasto letteralmente incollato alla poltrona. A volte, ho sussultato sbalordito o sono rimasto attonito per quanto si vedeva e sentiva; altre volte, ho annuito. Comunque, i temi principali del format in questione, un vero e proprio docu-film, erano gli stessi di tanti altri programmi visti e rivisti sul medesimo argomento. Eppure, qualcosa mi ha stupito come se si trattasse di una novità. Davvero strano… perché si tratta, tutto sommato, di una storia che ho seguito, da spettatore, in diretta, proprio durante quel biennio, insieme a tantissimi italiani di oggi e ai miei coetanei di allora che avevano, come me, la speranza che qualcosa cambiasse in meglio, ma senza arrivare a distruggere quanto di buono si sarebbe potuto salvare dei partiti liberandoli dalla partitocrazia.

Siamo ormai in un’altra epoca politica. Nel bene o nel male, almeno secondo la mia lettura dei fatti e della storia, dal 2009 si è aperto un nuovo quindicennio e bisogna prenderne atto. Infatti, come mi è capitato più volte di scrivere, nel 2009 è cominciato un nuovo quindicennio, un’altra stagione, che non è neppure più quella stagione iniziata nel 1994, con il dissolversi di Mani Pulite, che ha raggiunto il culmine nel 2007, ma che è entrata in crisi nel 2008 e che ha trovato la propria risoluzione nel 2009, con la nascita del Movimento Cinque Stelle. Anzi, come direbbero Giuliano Amato, Giuliano Vassalli, Claudio Signorile, Rino Formica, Claudio Martelli e il vecchio gruppo dirigente socialista, con il “Processo al Palazzo”, scriverebbe Pasolini, l’occasione della “Grande Riforma” andò perduta invece di trasformarsi in un’opportunità data proprio da quelle inchieste e dalle necessità della storia. Quella Riforma, con la R maiuscola, che era stata pensata negli anni Ottanta del secolo scorso e che si sarebbe potuta attuare nel 1992, sulla spinta dell’emergenza politica ed istituzionale, non si compì. E andò persa. Come pure si è poi persa la “rivoluzione liberale” lanciata da Silvio Berlusconi.

L’altra sera, su La7, ho rivisto passare di nuovo le immagini e le testimonianze del biennio 1992-1994. Come se non fossero passate mai. Come se le questioni emerse in quella fase storica fossero ancora attuali. Parafrasando un film con Jack Nicholson, potremmo scrivere: qualcosa non è cambiato.

Tra il 1992 e il 1994, con Tangentopoli e Mani Pulite, l’intero sistema dei partiti storici si sgretolò permettendo alla partitocrazia, all’epoca sull’orlo di una crisi profonda, di sopravvivere e di continuare a dominare. Insomma, in quel biennio i vecchi partiti furono spazzati via, ma la partitocrazia sopravvisse benissimo e, infatti, è oggi ancora più viva che mai. Con l’aggravante di una diffusa mancanza di cultura politica. Mentre riguardavo in tivù le immagini e i protagonisti di quegli anni, mi sono ancora di più convinto che abbiamo bisogno, oggi, di un “Progetto riformatore” in grado di guardare al presente e, al medesimo tempo, ai prossimi quindici anni. Ma non è un auspicio, si tratta piuttosto di una prefigurazione, un presentimento, una possibilità concreta, un sogno di libertà, un monito liberale, libertario, innovatore. Diciamo pure che il vero appuntamento, quello della svolta, coincide con l’elezione del nuovo capo dello Stato, nel 2022.

Non a caso, in questi ultimi tempi, dopo quasi vent’anni dalla prematura scomparsa di Bettino Craxi, si ritorna a parlare del leader socialista, si riprende a discutere con maggiore serenità del suo ruolo politico e della sua visione innovatrice. Il giro di boa è avvenuto. Siamo nel futuro. Il ciclo politico precedente, infatti, si è concluso. Si è aperto un altro capitolo della nostra transizione repubblicana. Senza nostalgie per il passato. Senza girare la testa indietro, ma guardando avanti. Non c'è alcun desiderio nostalgico in questo riavvio di un sentimento riformatore, ma – anzi – una voglia di futuro e di aggiornamento, anche del pensiero liberale. È necessario scriverlo, ammetterlo, riconoscere che il naturale bioritmo dell’infinita transizione italiana, ha ripreso a girare. Proprio ora che tutto sembra avvantaggiare il conservatorismo e i reazionari, proprio in questo momento, si sta preparando una nuova fase che arriverà a compimento tra non molto, una fase in cui il Risorgimento liberale sembrerà davvero ritornare come ispirazione ideale e storica per potersi finalmente compiere. Anche se le forze secessioniste, sovraniste, clericali, integraliste, populiste, stataliste e xenofobe avanzano.

La prima luce del nuovo ciclo sembra rischiarare e chiarire le idee. La stagione iniziata nel 1994, con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, è terminata nel 2008, con la caduta del governo di Romano Prodi, e si è conclusa definitivamente con le elezioni europee del 2009 ponendo il suo sigillo conclusivo con il risultato del successivo voto referendario del giugno dello stesso anno, cioè con il referendum per la modifica del “Porcellum” e con la richiesta di abrogazione della quota proporzionale. E quando dico o scrivo “Porcellum”, premetto, non lo intendo in senso dispregiativo, anche se la tentazione è davvero forte, ma uso semplicemente l’appellativo con cui si è soliti definire la vecchia legge elettorale, votata nel 2005 da un Parlamento caratterizzato, all'epoca, da una maggioranza di centrodestra. Infatti, il termine “porcata” fu utilizzato dall’estensore stesso di quella legge: Roberto Calderoli della Lega.

Ribadisco: la legge “porcata” è quella che ha dominato dalle elezioni politiche del 2006 in poi, fino all’avvento dell’altra “porcata”, cioè il cosiddetto “Rosatellum”, tuttora in vigore e d’impianto proporzionale. Ci vorrebbe, invece, l’uninominale maggioritario con collegi elettorali piccoli e primarie di collegio. Ma qui sono nel mondo dei sogni.

Il voto referendario del giugno 2009, quindi, è bene ricordarlo, venne reso vano dal mancato raggiungimento del quorum necessario per convalidare l’esito della consultazione. Un risultato, perciò, non privo di conseguenze politiche sull’attuale sistema che, anche a causa di quel mancato quorum, ha preso la strada della legge elettorale proporzionale. Un esito disastroso, che segna profondamente la fine di una stagione e che oggi chiude, con il taglio arbitrario del numero dei parlamentari e, con gli ultimi strascichi dell’anno appena trascorso, l’intero ciclo o nodo politico intrecciato con la cosiddetta “corda pazza” del sistema politico/giudiziario  iniziato con Tangentopoli e Mani Pulite – e che ora, siccome il nodo non si è mai sciolto, è arrivato al pettine. Intanto, guardando il programma “Atlantide” su La 7, ho avuto modo di apprezzare molto gli interventi lucidi e lungimiranti di un magistrato che mi ha fatto riflettere in positivo: Raffaele Cantone, che presiede l’Autorità nazionale anticorruzione. Inoltre, durante la visione del programma, mi è ritornato in mente un articolo di Sergio Romano pubblicato dal Corriere della Sera di qualche anno fa e intitolato “Il ritratto di un leader”, precisamente del 18 gennaio 2010, incentrato sulla figura di Bettino Craxi. Ho ripensato alla lettera scritta all’epoca da Giorgio Napolitano, quando era Presidente della Repubblica, e dedicata alla memoria di Bettino Craxi.

La trasmissione con Andrea Purgatori, pur mettendo ancora in contrapposizione chi definì Craxi un latitante e chi lo considera un perseguitato politico, rifugiatosi in Tunisia, ad Hammamet, dimostra come i tempi siano cambiati e come, gradualmente, sia oggi possibile affrontare certi temi - assai spinosi e controversi - con toni, parole e argomenti fino a ieri impensabili e, soprattutto, impronunciabili da parte delle più alte cariche dello Stato e, oserei dire, dalla stessa tv. Perché si trattava di temi considerati sconvenienti, prematuri, impopolari o addirittura vietati.

L’altro importante intervento, che non va sottovalutato e che anzi andrebbe riletto con maggiore attenzione, come ho accennato prima, è l’articolo di fondo del Corriere della Sera, firmato da Sergio Romano nel Gennaio 2010. È un editoriale che preannunciava il futuro. L’ambasciatore Romano affermava nel suo pezzo: “Non possiamo ridurre la vita di Craxi al suo epilogo giudiziario senza rinunciare a comprendere un intero periodo della storia nazionale”. Ma non basta, l’ambasciatore precisa: “Il suo principale obiettivo fu quello di rompere l’asse fra democristiani e comunisti che si era formato dopo le elezioni del 1976”.

E qui si apre uno scenario storico-politico che è necessario rileggere attentamente per capire quali siano le sfide culturali che si stanno giocando in questa fase storica. Quale sarà il nodo culturale, prima che politico, dei prossimi mesi? A mio parere, si va delineando l’ennesima prospettiva partitocratica che tenterà di chiudere i conti con il Risorgimento italiano spazzandolo definitivamente via dalla memoria provocando quell’oblio che ci riporterà indietro di secoli. Dunque, i poteri illiberali e corporativi proveranno ad annientare qualsiasi lascito risorgimentale sopravvissuto nel presente. In particolare, la non-democrazia italiana punterà a imbavagliare i liberali, i laici, i riformatori, i libertari, i mazziniani, i socialisti e gli eredi della destra storica di Camillo Benso conte di Cavour, Marco Minghetti e Quintino Sella. È questa la sfida.

Per comprendere l’estrema attualità di un tale discorso, allora, bisogna fissare nella mente una data: il 1976. Come ha ben ricordato Sergio Romano nel suo editoriale del 2010, infatti, Craxi “tentò di dare al Partito Socialista, grazie al culto di Giuseppe Garibaldi, un’ascendenza risorgimentale”. Eppure, proprio il 1976, è l’anno della cocente sconfitta dei socialisti ed è giustamente ricordato da Sergio Romano, nel suo libro “Storia d’Italia”, come l’anno in cui il 73,1% degli italiani diede il proprio voto alla Democrazia cristiana e al Partito comunista. Fu il risultato che aprì la strada alla stagione del “compromesso storico” e al successivo governo di solidarietà nazionale. Nel 1976, ricordiamolo, Giulio Andreotti divenne presidente del Consiglio, Amintore Fanfani salì sullo scranno più alto del Senato e Pietro Ingrao assunse la presidenza della Camera dei deputati. Mentre le forze politiche ritenute eredi delle idee e degli ideali risorgimentali uscirono pesantemente sconfitte dalle urne e toccarono il fondo racimolando soltanto uno scarso 25 per cento. Sempre nel 1976, però, avvennero anche altre due novità inattese che permisero alle forze risorgimentali, date ormai per morte, di arrivare fino a noi e di essere vive ancora nel 2010 come una memoria pulsante, ovviamente proiettata verso il futuro. Per la prima volta, infatti, proprio nel 1976, ci fu l’ingresso in Parlamento dei Radicali di Marco Pannella, che costituirono il gruppo Federalista europeo. Inoltre, nello stesso anno, all’Hotel Midas di Roma, alla fine del Congresso del Partito socialista italiano, venne eletto segretario l’allora quarantenne Bettino Craxi. Tanto che, forse proprio grazie a questi due eventi, qualche anno dopo, per la prima volta nella storia repubblicana, un laico andò alla guida di un governo nazionale. E lo fece proprio sulla scia delle idee risorgimentali. Infatti, l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, socialista, diede l’incarico a Giovanni Spadolini di formare il nuovo governo. E Spadolini fu il più risorgimentale dei politici italiani.

In virtù di tale analisi, nel suo articolo del 18 gennaio, Sergio Romano - giustamente - asserì che “esiste una evidente contraddizione tra le ambizioni riformatrici di Craxi e un sistema che antepone la clientela al merito, il pagamento di una tangente alla qualità dell’opera... Gli storici non potranno riconoscere i suoi meriti senza constatare al tempo stesso i suoi errori”. È proprio dagli errori, secondo il pensiero liberale di Luigi Einaudi, che si può ripartire: per correggersi e riformare, per un vento liberale, libertario, innovativo. Per il rinnovamento della cultura liberale. Proprio come fecero gli “Amici del Mondo” di Mario Pannunzio ed Ernesto Rossi negli anni Cinquanta e Sessanta.


di Pier Paolo Segneri