Sovranismo, sindrome regressiva

Ho ancora in mente le accese discussioni che, negli anni Sessanta, si svolgevano fra i sostenitori del federalismo europeo e i sovranisti dell’epoca.

È sicuro che nove italiani su dieci non sanno, o non ricordano, che fra gli oppositori dell’unificazione europea non vi erano solo gli aderenti al Msi di Michelini e poi Almirante ma anche i comunisti del Pci, animati, gli uni quanto gli altri, anche se per motivi assai diversi, dal fatto di detestare quella “mitteleuropa” che, ai loro occhi, rappresentava unicamente il regno della plutocrazia, dei nemici del popolo e della nazione, intesa però come feticcio e certamente non come la Patria che aveva ispirato il Risorgimento.

Partecipavo a quei dibattiti più che altro come osservatore perché capivo che, contro argomentazioni di quel genere, non c’era nulla da fare se non aspettare il corso degli eventi i quali, senza alcun dubbio, avrebbero fatto giustizia di quello che, a tutti gli effetti, era davvero e solo una solenne e miserevole dimostrazione di provincialismo politico. Per questo, il mio unico contributo fu un articolo, pubblicato sulla Tribuna di Beatrice Rangoni Machiavelli dal titolo Effetto Europa. In esso, fra l’altro, assai prima dell’inaugurazione dei progetti Erasmus, prevedevo che le nuove generazioni – appena successive a quelle che parevano rimbambite dalle rischiose sciocchezze del ’68 – avrebbero ben presto preso atto della realtà di Paesi europei che, a differenza del nostro, già godevano di una democrazia liberale nella quale la libertà individuale, con annessa responsabilità, era una proprietà solidamente radicata, percepita addirittura come ovvia e strenuamente difesa. Difesa da chi? È triste dover ancora oggi sottolineare che fra i nemici della democrazia liberale, non solo in termini geopolitici ma proprio in fatto di politica interna, vi sono quelli di sempre: i dogmatici del marxismo e i cocciuti nostalgici delle dittature di destra.

Quelli, val la pena di ricordarlo, erano gli anni in cui in tutti i Paesi dell’Europa centrale e del nord, sia i partiti comunisti sia quelli nazisti e fascisti, erano fuori legge, cioè dichiarati estranei e nemici dei principi costituzionali liberali.

L’Effetto Europa c’è indubbiamente stato e, assieme alla caduta del Muro di Berlino, ha obbligato chiunque faccia politica a dichiararsi “liberale” o, comunque, a rendere omaggio non alla lotta di classe da un lato o ad un cieco nazionalismo dall’altro, bensì ad una visione nella quale Stato di diritto e mercato, individualismo e solidarismo, liberalismo e socialdemocrazia, in varie dosi e in varie misure di equilibrio, divenivano, finalmente, i riferimenti indiscussi sperabilmente stabiliti una volta per tutte.

L’unificazione europea non è avvenuta integralmente e solo puri idealisti potevano immaginare che si sarebbe realizzata in pochi decenni. Tuttavia, l’Europa che abbiamo oggi ha posto tutti i Paesi del Continente in una situazione ben diversa da quella in cui si sarebbero trovati, e tornerebbero a trovarsi, senza la Ue attuale. Per capirlo non occorre grande intelligenza ma basterebbe, anche se per molti già questo sembra essere uno sforzo immane, un po’ di pazienza, di memoria e di immaginazione. Non si tratta solo, anche se è già molto, della pace che dura da settant’anni, ma della convenienza dei liberi scambi, della libertà di movimento e di organizzazione, dell’integrazione della ricerca e della tutela dei diritti in molti ambiti e, soprattutto, della solidità economica complessiva sulla base della moneta unica.

È chiaro e ovvio che, aderendo all’Unione, ogni Paese presentava i propri conti e, i nostri, non erano certamente da primi della classe. Coloro che, fin dall’inizio, hanno criticato l’Euro, non si rendono conto di quanto varrebbe, oggi, la vecchia lira e dove saremmo sprofondati con la nostra allegra politica del deficit spending e dell’annesso debito pubblico sotto la spinta dei vari compromessi fra parte del mondo cattolico e il social-comunismo la cui dimensione partitica non aveva paragoni nel mondo occidentale.

Coloro che, inoltre, pensano che basti dichiararsi sovranisti per tornare ad una spesa pubblica definita “sociale” ma appoggiata unicamente sulla vendita di debito ad interessi da usura e dunque destinata a portarci sul lastrico, dovranno ben presto rivedere le proprie posizioni. È del tutto naturale, e anche questo è ovvio, che l’Ue attuale, come qualsiasi altra impresa di grande portata, ha bisogno di qualche nuova iniziativa, soprattutto di ordine culturale in grado di aumentare la coesione e la solidarietà dei popoli dei Paesi aderenti. Tuttavia, insistendo solo sulle cose che in Europa non vanno, i sovranisti sembrano non accorgersi di un’“Italia, che suoi guai non par che senta: vecchia, otiosa et lenta” come già diceva un europeista ante litteram come il Petrarca. Sarebbe carino, anche se temo non realistico, che i più se ne accorgessero prima di domenica prossima.

Aggiornato il 21 maggio 2019 alle ore 11:12