Decreto sicurezza e sindaci ribelli: l’intervista ad Annetta

mercoledì 9 gennaio 2019


Sono sempre più numerosi i sindaci in protesta contro il “Decreto sicurezza” che stabilisce il rifiuto della concessione della residenza a chi ha un permesso di soggiorno, perché ritenuto in contrasto con la normativa comunitaria che regola l’accoglienza dei “richiedenti protezione internazionale” e con l’articolo dieci della nostra Carta costituzionale. Al di là delle valutazioni su un ulteriore scontro istituzionale di cui il Paese non aveva bisogno o del contenuto della legge che ha provocato la contestazione di molti primi cittadini e anche delle Regioni, come riflette l’avvocato penalista Massimiliano Annetta, docente di Diritto penale alla facoltà di Giurisprudenza di Firenze e direttore del Master in Anticorruzione alla Link Campus University, la decisione lanciata dal sindaco di Palermo Leoluca Orlando, dal sindaco di Firenze Dario Nardella e dal primo cittadino di Napoli Luigi De Magistris, di dare disposizioni per non applicare le misure della legge voluta dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, rischia seriamente di incagliarsi sulla sua impraticabilità sotto il profilo del diritto, piano evidentemente sempre meno considerato, come dovrebbe essere, a cardine di ogni democrazia compiuta.

Avvocato, intanto può riassumere le ragioni dell’atto di disobbedienza dei primi cittadini ribelli?

I sindaci ritengono illegittimo il Decreto sicurezza sotto due profili. Primo perché contrasterebbe con la normativa comunitaria e in specie con la direttiva comunitaria del 2013 che disciplinava l’accoglienza dei “richiedenti protezione internazionale” e anche con l’articolo 10 della nostra Costituzione. In particolare, l’articolo 13 della legge stabilisce che il permesso di soggiorno rilasciato al richiedente asilo anche se costituisce documento di riconoscimento, non basterà più per iscriversi all’Anagrafe e per avere la residenza. In pratica, i Comuni non potranno più rilasciare a chi ha un permesso di soggiorno la carta di identità, né concedere l’accesso al servizio sanitario nazionale o ai centri per l’impiego.

Sul piano della cultura giuridica, i sindaci in protesta possono fare quello che hanno annunciato? E quali prospettive innescherà la loro “disobbedienza”?

Sul piano formale, nutro molte perplessità sulle modalità con cui intendono disapplicare il Decreto sicurezza. Non si può ignorare che la democrazia è incardinata su procedure e non spetta a nessun sindaco decidere di sospendere una legge anche se la ritiene incostituzionale, né tantomeno stabilire se una legge sia o no costituzionale. Se una norma contrasta con la Costituzione o con le norme sovranazionali non sono i sindaci a stabilirlo, ma si deve interrogare la Corte costituzionale.

Come?

Il modo di adire la Corte costituzionale nel nostro ordinamento non è libero, ma prevede solo due modi per farlo. O in modo incidentale, quando a sollevare la questione di costituzionalità è il giudice all’interno di un procedimento oppure con azione diretta se a sollevare la questione di costituzionalità è un organismo statale.

Entrambe le strade sono ignorate dai sindaci “ribelli”, al contrario di quanto deciso da alcune Regioni come il Piemonte, la Toscana e la Calabria, decise all’azione diretta e seguite probabilmente anche da Umbria ed Emilia-Romagna...

Al di là del contenuto, della costituzionalità o meno della legge, il ricorso per azione diretta alla Corte costituzionale annunciata dalle Regioni è la procedura corretta. I sindaci si stanno, al contrario, muovendo al di fuori di entrambe le procedure. Un comportamento che oltretutto solleva grandi dubbi anche perché trascura le conseguenze sul piano anche penale cui si esporrebbero i funzionari dell’Anagrafe dei Comuni, risolti a disapplicare la legge, ossia il Decreto sicurezza.

Quale reato commetterebbero?

Il reato di abuso d’ufficio che si commette ogni volta che un ente pubblico di natura amministrativa violi scientemente la legge. A parte la possibilità di commissariamento da parte del prefetto, il rischio più banale è quello penale perché un organo politico amministrativo che scientemente viola la legge commette, nelle persone che svolgono le singole condotte, il reato di abuso di ufficio, con conseguente apertura di procedimenti. Si tratta di una vicenda molto spinosa.

A suo avviso basterà a risolverla, come diceva prima, un forte richiamo alle procedure giuridiche?

Dovrebbe. Perché sulla possibile violazione della norma della Costituzione e delle convenzioni sovranazionali si può esprimere soltanto la Consulta a cui va rimessa la questione. La disapplicazione e la disobbedienza contribuiscono a rinfocolare il già grave dissidio e tensione tra organi dello Stato che stanno disgregando la nostra Repubblica. C’è una modalità per richiedere all’unico soggetto deputato a farlo di richiedere un parere sulla costituzionalità o meno di una norma? La si applichi e la si segua. Il fatto è che quel che sta accadendo va valutato più come un atto a fortissima valenza politica che giuridica, uno scontro istituzionale che rappresenta soltanto l’ultimo episodio della continua tensione tra organi dello Stato. Come sempre in Italia si reagisce impiegando la logica delle opposte tifoserie schierandosi in modo aprioristico da una delle parti.

Quindi l’esempio da seguire è quello delle Regioni, che è l’iter istituzionale...

Sì, assolutamente. Con ricorso per azione diretta alla Corte costituzionale. Un modo semplice e soprattutto libero dalla cattiva abitudine ad usare le istituzioni per alimentare polemiche invece che impegnarle nella risoluzione dei problemi dei cittadini.


di Barbara Alessandrini