La cena delle beffe

Pericoloso invitare a cena il Diavolo. Soprattutto qualora si vogliano rimettere assieme ergodicamente (cioè, attendendo i tempi biblici di una ricomposizione naturale dei frammenti del giocattolo politico andato in frantumi) i cocci di un Partito Democratico in via di estinzione. Per quanto curioso, c’è sempre qualcuno in campo che ha voglia di restaurare una salma, per poi farsene ventriloquo e sua forza motrice. Uno di questi è il Governatore del Lazio Nicola Zingaretti, che da tempo mette in scena un’abile rappresentazione di se stesso (buon sangue non mente, vista la parentela con il protagonista della fiction del Commissario Montalbano), proponendosi come candidato unico, almeno per ora, alla guida dell’omino morto che il suo presidente in carica, Matteo Orfini, vorrebbe resuscitare in una fonte battesimale che ricomponesse come per volontà divina i detriti sparsi della costellazione di sinistra. Ipotesi quest’ultima indigesta per Zingaretti, che la vedrebbe come pietra di inciampo per la sua candidatura al prossimo (se mai ci sarà…) Congresso del Pd. Ripetiamo quindi con Ennio Flaiano che “la situazione è grave ma non seria”.

Anche perché i numeri elettorali attuali (per non parlare delle disastrose proiezioni in vista delle europee di maggio, in cui ci si conterà con un sistema proporzionale puro!) danno come impossibile una riedizione, anche in tono minore, del famoso “Patto del Nazareno” Renzi-Berlusconi. Pertanto, exit una qualsiasi soluzione alternativa centrista all’alleanza Lega-M5S. Tutti, chi più chi meno, richiamano l’attenzione sul fatto che la tenuta della democrazia rappresentativa necessiti di equilibrati contrappesi nel gioco politico tra maggioranza e opposizione, a sostegno del principio dell’alternanza. Ora, in mancanza oggettiva della seconda dovuta alla sua incandidabilità come sostituta del Governo attuale in caso di crisi, si va verso un sistema oligarchico di fatto, come già si profila nell’attuale condizione di apparente triunvirato, in cui però uno dei tre svolge il mero ruolo di ammortizzatore delle spinte opposte che gli provengono dagli unici due azionisti di maggioranza.

Quindi, anche qualora i marosi prevedibili, sollevati da una fin troppo disinvolta manovra di bilancio, dovessero procurare una crisi di governo dovuta alla controreazione dei mercati finanziari e alla conseguente ascesa vertiginosa di “Lady Spread”, il passo successivo sarebbero elezioni anticipate e non un governo dell’alternanza, né tantomeno tecnico. In tal caso, Lega e Movimento 5 Stelle marcerebbero separati colpendo uniti sia un’Europa già in profonda crisi, sia la vergine di ferro dell’euro e, soprattutto, farebbero campagna elettorale per l’abolizione del Fiscal compact inserito in Costituzione dai precedenti governi centristi. Manovre diversive come quella ipotizzata di approvare in sede di Consiglio dei ministri un Def che rispetti il tetto dell’1,6 per cento dell’indebitamento annuale concordato con l’Europa, per poi “parlamentarizzarne” l’ulteriore crescita oltre il 2 per cento, sono accorgimenti inutili perché, comunque, sarà il mercato a giudicare il tutto esclusivamente in base ai propri interessi. Quindi, se l’attuale maggioranza vuole continuare a governare dovrà accontentarsi di poste quasi figurative che diano ai propri elettorati l’impressione di aver avviato un lavoro “in progress”, per soddisfare gli impegni presi in campagna elettorale, aspettando tempi (cioè, “conti”) migliori per il futuro.

Un sentiero molto stretto, tuttavia, lastricato di umiltà e buon senso che, però, risulta merce rara in chi non ha né la pazienza né la prudenza delle lunghe attese.

Aggiornato il 20 settembre 2018 alle ore 12:20