Riforma carceri, Orlando getta la spugna

“Mi dispiace che ci siano partiti che usano le tematiche carcerarie per fare propaganda politica, per me il più grande rammarico è quello di non essere riuscito a varare con questo Governo la riforma dell’ordinamento penitenziario”.

Alla fine il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, scioglie la riserva proprio davanti alle guardie carcerarie che celebrano oggi il 201esimo anniversario della fondazione del corpo di polizia penitenziaria, per gettare la spugna senza più nascondersi dietro l’ambiguità e l’ipocrisia che avevano caratterizzato le sue uscite precedenti. Non ci sarà alcun decreto al Consiglio dei ministri del 18 maggio, l’ultimo con questo governo in carica la cui maggiorana si è dissolta lo scorso 4 marzo. E se è vero che esistono partiti - come Lega e Movimento 5 Stelle - che usano vergognosamente la questione giustizia e la sua appendice carceraria per fare campagne del tipo “buttate la chiave” come scorciatoia per il consenso popolare, salvo invocare il garantismo quando viene pizzicato qualcuno dei loro, è altrettanto vero che ne esistono degli altri, come il Partito Democratico, che con il proprio malinteso senso dell’opportunismo hanno persino fatto peggio. Non avendo avuto il coraggio di comunicare ai propri elettori la necessità di questa riforma, riconosciuta da tutti i magistrati italiani tranne – forse – Piercamillo Davigo, quelli come Orlando hanno fatto un doppio autogol. Da una parte sono stati indicati come quelli che vogliono svuotare le carceri, dall’altra come quelli che non hanno il coraggio delle proprie idee politiche e delle proprie riforme. Un disastro che poi ha portato ai risultati che tutti sanno.

Adesso cade questo ultimo bastione di ipocrisia, così Orlando neanche dovrà fare la fatica di dire che “lui ci ha provato ma Paolo Gentiloni non ne ha voluto sapere”. O che “la questione è troppo delicata perché la affronti un Governo uscente”. Tutte balle a quattro piani per nascondere il vero volto di una forza politica che ormai non riesce a trovare il senso ontologico della propria stessa sopravvivenza. Né carne né pesce, né garantista né forcaiola. Distrutta da quel maledetto “ma anche” di veltroniana memoria.

 

Aggiornato il 17 maggio 2018 alle ore 16:01