Legge Pinto, la Consulta censura le furbate di Monti

Uno Stato nemico del cittadino; che prova a “fotterlo” anche se è lo Stato stesso ad avere torto marcio. Come con le migliaia di casi di richiesta di risarcimento per l’eccessiva durata dei processi così come previsto dalla famigerata Legge Pinto. Che ieri è stata dichiarata incostituzionale, assieme alla riscrittura operata dal Governo Monti, dalla Consulta. Con la sentenza 88 redatta dal giudice Aldo Carosi.

Secondo la sentenza è incostituzionale “l’articolo 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 (Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile) – come sostituito dall’articolo 55, comma 1, lettera d), del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83 (Misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134 – nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

In parole povere non si può rinviare alle calende greche, con ulteriori rincari per lo Stato e per la collettività, il pagamento di un diritto, cioè quello alla ragionevole durata di un qualsivoglia processo, che secondo la Cedu – Corte europea dei diritti dell’uomo – matura dopo quattro anni per il primo grado di giudizio. A parte si dovrà poi promuovere un’istanza di incostituzionalità per i parametri annui di rimborso riconosciuto. Che secondo le sentenze Cedu dovevano non essere inferiori ai 1500 euro. E che la Legge Monti del 2012 aveva portato a mille e il successivo ritocco del ministro Andrea Orlando addirittura a settecento. Ma per la proprietà transitiva secondo cui fa fede il parametro europeo non possono esservi dubbi su questo ulteriore eventuale giudizio costituzionale.

Dure le parole usate dalla corte: “Nonostante l’invito rivolto da questa Corte con la sentenza n. 30 del 2014, il legislatore non ha rimediato al vulnus costituzionale precedentemente riscontrato e che, pertanto, l’articolo 4 della legge n. 89 del 2001 va dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la domanda di equa riparazione, una volta maturato il ritardo, possa essere proposta in pendenza del procedimento presupposto.

E ancora: “Se i parametri evocati presidiano l’interesse a veder definite in un tempo ragionevole le proprie istanze di giustizia, rinviare alla conclusione del procedimento presupposto l’attivazione dello strumento – l’unico disponibile, fino all’introduzione di quelli preventivi di cui s’è detto – volto a rimediare alla sua lesione, seppur a posteriori e per equivalente, significa inevitabilmente sovvertire la ratio per la quale è concepito, connotando di irragionevolezza la relativa disciplina”.

Come se non bastasse l’avvocatura dello Stato aveva osato resistere davanti alla Consulta argomentando che il rimborso non sarebbe dovuto anche in caso di soccombenza di chi aveva proposto l’istanza. Come a dire che se uno fa una causa di lavoro e la perde dopo dieci o vent’anni non avrebbe diritto al rimborso per la denegata giustizia da parte dello Stato. E questo “per avere comunque perso”. Laconica la risposta della Consulta: “La definizione del giudizio presupposto non attiene al contenuto intrinseco della domanda, ma risulta a esso esterna, con ciò dovendosi escludere che si tratti di una condizione dell’azione”.

Come a implicitamente dire: state usando un’argomentazione da giustizia tribale che nemmeno nell’Età del bronzo qualcuno avrebbe osato perorare. Ma lo Stato italiano è fatto così: l’individuo non conta.

 

 

 

Aggiornato il 26 aprile 2018 alle ore 16:40