Il grillino Toninelli oltre Dostoevskij

Senza scomodare Giambattista Vico e la sua teoria sui corsi e ricorsi storici, bisogna ammettere che le cattive opere siano dure a morire, soprattutto quelle, benché spregevoli, capaci di produrre gli effetti desiderati per chi le ponga in essere.

Così capita, nel Terzo Millennio, di rivedere un fenomeno che si pensava consegnato alla polvere del passato: la vendita delle indulgenze. Del deprecabile fenomeno se ne è discusso parecchio a proposito delle ragioni che favorirono l’avvento della Riforma protestante. Nel 1517 papa Leone X progettò di edificare la Basilica di San Pietro. Per finanziare la colossale impresa pensò di ricorrere allo strumento, già collaudato al tempo delle Crociate, di concedere assoluzioni per i peccati commessi a quei penitenti disponibili a fare generose offerte in denaro alla Chiesa. Si trattò di sacralizzare la fungibilità morale della colpa con un’oblazione di proporzionato contenuto economico-patrimoniale. Ma fu su questo mercimonio che Martin Lutero costruì la sua ribellione che si estese ad un pezzo significativo della cristianità. 1517-2018: a rispolverare la pratica della vendita delle indulgenze non è la gerarchia ecclesiastica ma quella partitica. In particolare, del Movimento Cinque Stelle.

Il senatore Danilo Toninelli, in preda alla disperazione per l’impossibilità del suo leader, Luigi Di Maio, a trovare numeri facili in Parlamento per andare a Palazzo Chigi, ha pensato bene di rivolgere un appello agli esponenti del Partito Democratico perché colgano, in cambio del sostegno a un governo grillino, l’“importante possibilità di riscattarsi per i fallimenti degli ultimi anni”.

Non è uno scherzo: queste parole Toninelli le ha pronunciate davvero. I Cinque Stelle, secondo quanto afferma uno dei loro portavoce, sarebbero disponibili a concedere al Pd l’assoluzione dai suoi peccati pregressi versando un congruo obolo che poi consisterebbe nell’appoggio incondizionato, ma gratificante per il senso di liberazione dal peccato che l’atto espiatorio reca in sé, a un governo presieduto da Luigi Di Maio.

L’episodio potrebbe essere derubricato a semplice idiozia nel bestiario della politica politicante, ma non siamo di questo avviso. Dietro l’indulgenza dell’impiegato di concetto Danilo Toninelli si cela una visione della morale pubblica che nella versione pentastellata si trasforma nell’abominio valoriale del “partito etico”.

Cioè, si fa strada l’idea che un movimento politico non si limiti a “concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”, come prescrive la Carta costituzionale, ma si faccia depositario e titolare di codici morali che diverrebbero cogenti per l’intera comunità per effetto della vittoria elettorale. Di converso, lo sconfitto non sarebbe semplicemente un soggetto politico la cui proposta è stata ritenuta dalla maggioranza del corpo elettorale inadeguata o sbagliata, ma un colpevole redimibile solo attraverso l’espiazione dei peccati commessi.

Ora, sui “dem” se ne sono dette di tutti i colori, in particolare sul leader Matteo Renzi. Vi sono state critiche asperrime sulla fallacia delle loro soluzioni ai problemi che attanagliano il Paese. Il centrodestra li ha combattuti perché venissero democraticamente sconfitti, senza tuttavia farne una questione di lotta ontologica tra il Bene e il Male. La natura degli errori, tanti, che i governi del Pd hanno commesso si origina e risiede nella politica, non nella morale. L’inverso sarebbe roba da campi di rieducazione della Cina di Mao Zedong, da Khmer rossi nella Cambogia degli anni Settanta, se non fosse che gli odierni grillini sono i figli prediletti di quel giustizialismo che ha segnato in negativo la vita pubblica italiana dell’ultimo quarto di secolo. L’odio per il nemico, coltivato da quella sinistra che oggi ne è vittima, si è ammantato di presunzioni moralistiche. La lotta senza quartiere a Silvio Berlusconi e al berlusconismo, assurti a sinonimi concettuali del male irredimibile, sono la prova plastica di un pensiero filosofico che ha operato per asservire le categorie della politica a quelle della morale come se nella gerarchia ordinata agli interessi della collettività la prima dovesse ridursi a variabile dipendente della seconda. Come se il primato della politica fosse lo sterco del demonio.

Danilo Toninelli, probabilmente a sua insaputa, saltando a piè pari il pensiero critico di Fëdor Dostoevskij, trasfuso nel capolavoro “Delitto e Castigo”, sull’argomento, inserisce nell’interazione tra la colpa e la pena l’elemento corruttivo dell’indulgenza condizionata all’oblazione riparatrice. Cosicché un campione improvvisato della nuova forma della morale (Toninelli) si fa artefice di un atto immorale (l’indulgenza per i presunti peccati politici del Pd in cambio di una prestazione remunerativa) per giustificare un fine superiore (l’ascesa a Palazzo Chigi di Luigi Di Maio) che costituirebbe nelle intenzioni dei Cinque Stelle un momento di rigenerazione morale di una nazione corrotta fino al giorno prima del loro avvento al potere. Per quanto l’espressione facciale da bravo ragazzo, un po’ sprovveduto, del senatore Toninelli non lo dia a vedere questo è propriamente il sofisma posto a guardia della giustificazione morale di ogni tirannia.

Probabilmente è all’inverarsi di tale condizione a cui pensano coloro che, tenendosi a debita distanza dallo sgangherato carro del vincitore, accusano i Cinque Stelle di essere un movimento antidemocratico. Gli si può dar torto?

Aggiornato il 10 aprile 2018 alle ore 16:44