Togliatti, Turati e riflessioni sugli anni di piombo

venerdì 23 marzo 2018


In questi giorni sono state ricordate alcune vittime dei terroristi negli anni di piombo, tra cui il professor Marco Biagi e il giudice Guido Galli.

Colpiscono le motivazioni contenute nei comunicati con cui si rivendicavano i delitti. Per le Brigate Rosse Marco Biagi è “l’ideatore e il promotore delle linee e delle formulazioni legislative di un progetto di nuova regolazione dello sfruttamento del lavoro salariato che mira a costruire “vincoli di indirizzo e di bilancio centralizzati e legati all’integrazione monetaria europea con il fine di stabilizzare l’avviata alternanza tra coalizioni politiche incentrate sugli interessi della borghesia imperialista per riadeguarne il dominio e rafforzarlo nei confronti delle istanze proletarie e delle tendenze al loro sviluppo in autonomia politica antistatuale ed anti istituzionale”.

Più sbrigativa la prosa di Prima Linea che nei ciclostilati diffusi parla del Giudice Galli come di un magistrato “impegnato a ricostituire l’Ufficio Istruzione di Milano come centro di lavoro giudiziario efficiente e reo di appartenere alla frazione riformista e garantista della magistratura”.

Non diverse le accuse rivolte a Emilio Alessandrini, anch’egli assassinato da Prima Linea che viene accusato di essere “uno dei magistrati che maggiormente ha contribuito a rendere efficiente la Procura della Repubblica di Milano; ha fatto carriera a partire dalle indagini su Piazza Fontana che agli inizi costituivano lo spartiacque per rompere la gestione reazionaria della magistratura, ma successivamente, scaricati dallo Stato i fascisti, ormai ferri vecchi, diventano il tentativo di ridare credibilità democratica e progressista allo Stato. Alessandrini era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva”.

A questo punto può essere molto utile rileggere l’articolo scritto da Palmiro Togliatti nell’aprile del 1932 su “Lo Stato Operaio” all’indomani della morte a Parigi di Filippo Turati, capo indiscusso del socialismo riformista italiano. Quella di Togliatti è una vera e propria requisitoria che assume il carattere di una sentenza inappellabile: “Nella persona e nella attività di Turati si sommarono e toccarono una espressione completa tutti gli elementi negativi, tutte le tare, tutti i difetti che sin dalle origini viziarono e corruppero il movimento socialista italiano, che lo fecero deviare dagli obiettivi rivoluzionari del movimento operaio, che lo condannarono al disastro, al fallimento, alla rovina” per concludere che “l’insegna sotto cui questa vita e questa fine possono essere poste è la insegna del tradimento e del fallimento. Turati “si pose sempre e solamente nel senso di una trasformazione delle istituzioni politiche borghesi, di una attenuazione delle più flagranti ingiustizie sociali, di una maggiore libertà ed equità e di una eliminazione per questa via dei contrasti di classe.

Turati, sottolinea Togliatti, vuole “far sparire le ingiustizie sociali perché teme che da esse finirà per sorgere, per la reazione delle masse, un moto rivoluzionario, il sovvertimento dell’ordine”. Egli è “organicamente un controrivoluzionario, un nemico aperto della rivoluzione” la cui politica, continua Togliatti nella sua requisitoria, “portando il proletariato a mettersi al seguito dei borghesi e piccolo borghesi liberali concludeva non a sovvertire, ma a rafforzare lo Stato unitario borghese, dandogli una base nelle organizzazioni di massa nei lavoratori”. E, dulcis in fundo, “per la rivoluzione russa egli non sentì e non manifestò mai un palpito di entusiasmo sincero”. Togliatti conclude augurandosi che “le masse lavoratrici italiane siano liberate, e liberate per sempre e a fondo, di questa roba” e che così si possa “dare scacco ai giovanotti di belle speranze (probabile si riferisca a Carlo Rosselli) che tanto si adoprano per ripetere ancora una volta la impresa reazionaria del vecchio scomparso”.

Se si confronta l’articolo di Togliatti con i testi di Br e Prima Linea si ritrovano, a quasi 50 anni di distanza, concetti del tutto simili, anche se bisogna riconoscere che lo stile di scrittura del vecchio capo del Pci è cosa ben diversa da quello burocratico dei comunicati dei terroristi.

L’accusa di Togliatti a Turati suona come un’accusa di alto tradimento o di intelligenza con il nemico (di classe) per essersi impegnato contro le ingiustizie sociali al fine sì di garantire una maggiore libertà ed equità, ma con l’intento ultimo di attenuare i conflitti sociali per mettere i bastoni tra le ruote alla rivoluzione. Sono le stesse colpe attribuite a Biagi, Galli e Alessandrini.

La coincidenza non è inspiegabile, tanto più se si ricordano le ben note osservazioni di Rossana Rossanda sul Manifesto del 28 marzo 1978: “Chiunque sia stato comunista negli anni Cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Brigate Rosse. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov di felice memoria”.

Nonostante il ripetersi di episodi preoccupanti è improbabile che oggi si possa tornare agli anni di piombo, ma sarebbe necessaria una seria e pacata riflessione in sede storica sulle radici profonde e lontane del terrorismo. Nello stesso tempo, si avverte forte l’esigenza che partiti, forze sociali e istituzioni assumano una posizione di netta condanna dell’uso politico, sotto qualsiasi forma, della violenza. Una classe dirigente che non afferma e condivide il principio del rispetto reciproco non è in condizioni di garantire il futuro del Paese.


di Walter Galbusera