Il neocomunismo di Grillo

In un rimbalzo di stampa, tratto da un post dal titolo “Società senza lavoro”, mi è capitato di leggere la rivoluzionaria idea di Beppe Grillo sul tema caldo del lavoro e del reddito di cittadinanza, ove introduce un concetto davvero sconvolgente: “Il reddito per diritto di nascita”.

La tesi molto semplice del comico genovese, che mi pare riprenda un concetto del professor Domenico De Masi (teorico dell’ozio creativo nella società post-moderna), andrebbe oltre l’idea di comunismo come l’abbiamo conosciuto nelle diverse prassi politiche. Il nucleo principale del suo pensiero è questo: “Siamo davanti a una nuova Era, il lavoro retribuito, e cioè legato alla produzione di qualcosa, non è più necessario una volta che si è raggiunto la capacità produttiva attuale. Si vuole creare nuovo lavoro perché la gente non sa di che vivere, si creano posti di lavoro per dare un reddito a queste persone, che non avranno un posto di lavoro, ma un posto di reddito, perché è il reddito che inserisce un cittadino all’interno della società”.

A nessuno degli ideologi dell’Era sovietica, da Lenin a Breznev fino a Gorbaciov, mi pare, gli è mai sfiorata l’idea di assicurare un reddito al cittadino senza un corrispettivo lavoro al servizio dello Stato, unico proprietario e gestore dei mezzi di produzione. Lo stesso dicasi del comunismo di Fidel Castro. Mentre il comunismo cinese, che formalmente continua a chiamarsi tale, non potendo più assicurare a tutti un lavoro, ha dovuto snaturare l’originale ideologia, con il riconoscimento dell’iniziativa privata, mantenendo il controllo del potere politico con il partito unico.

La tesi di Grillo sembra ispirarsi a quei modelli teorici di società di uomini liberi dai bisogni (di cui si è sempre vagheggiato, dalla Repubblica di Platone, anche se a tanto nemmeno Karl Marx si sia mai spinto) con il dominio della téchne al servizio della società e un’accumulazione non profittuale ma comunitaria, per la cui attuabilità si richiederebbe un’economia galoppante, con un’automazione quasi totale, un debito pubblico di dimensioni esigue, Pil e rendimenti molto alti, capaci di reggere una drenaggio fiscale versato primariamente al sostegno e al servizio del cittadino, libero di lavorare o di farsi mantenere dallo Stato. E sicuramente ne esprime tutto il tormento di chi si preoccupa di una realtà sociale sempre più angosciante: la forte crescita dell’impoverimento dei ceti medio-bassi e dei tanti giovani senza lavoro. Ma quanta praticabilità minimamente compatibile con il nostro disastrato quadro economico finanziario possa avere, senza esporre il Paese a un default economico, nessuno penso sia in grado di rispondere!

Proviamo a immaginare, poi, a quali mutamenti, antropologici, esistenziali e morali, può portare la scelta non necessitata dalle avversità della vita, di farsi mantenere, come diritto incondizionato, dallo Stato. Tanta di questa gente, in “otium”, assistita per diritto incondizionato, perderebbe ogni spinta a un’intrapresa commerciale, economica o di altro genere, con il rischio di depauperare o rendere obsoleta buona parte del nostro potenziale lavorativo. E poi tale affrancamento, spezzando l’inestricabile binomio lavoro-reddito, non comporterebbe il rischio di creare una massa di alienati e di infelici? Ma il lavoro, anche in una dimensione di pensiero laico, oltre al comandamento divino, è nel destino dell’uomo. Esso è lo strumento per modificare la realtà e la natura, fin dal mito di Prometeo. Davvero sembrano lontani i tempi quando Eschilo poteva affidare al suo eroe tragico, nel Prometeo Incatenato, un’affermazione potente, oggi anacronistica: “La Tecnica è di gran lunga più debole della Necessità”( ponendo il lavoro come destino ineluttabile).

Attraverso gli strumenti tecnici, l’uomo si emancipa dalla necessità, in quanto artefice primario di sé e della sua comunità, è questa la storia dell’Uomo! E dentro di essa, concetti come lavoro e felicità hanno sempre mosso il sentimento di appartenenza e la spinta al progresso degli uomini nelle diverse società moderne (nella dichiarazione d’indipendenza americana c’è proprio un riconoscimento esplicito al diritto di ciascuno alla ricerca della felicità), mentre non scorgiamo seri fondamenti nel pensiero scientifico e pedagogico del concetto che il raggiungimento della felicità possa passare da uno stato di otium perenne.

Per questo trovo preoccupante l’emergere di idee che spingano a prevedere l’assegnazione di forme di reddito indipendente dal lavoro prestato. Soprattutto in un contesto politico in cui tale tema è alla ribalta del confronto tra i partiti, tra le priorità assolute da affrontare per arginare l’inarrestabile scivolamento verso la povertà di milioni di persone, e tale da essere stato un fattore capace di catalizzare buona parte delle scelte dell’elettorato nel recente rinnovo delle rappresentanze parlamentari, con tutte le aspettative, a breve termine, che si sono innescate. Non vorrei che nel prossimo futuro ci ritrovassimo, come Diogene, con la lanterna in mano a cercare l’Uomo!

 

Aggiornato il 19 marzo 2018 alle ore 11:28