Caso Moro, la lezione del film di Rai Cinema

Davvero un docufilm ben fatto “Il Condannato - Cronaca di un sequestro”, firmato da Ezio Mauro, per la regia di Simona Ercolani e Cristian di Mattia e prodotto da Stand by Me e Rai Cinema e andato in onda ieri a quarant’anni da quel 16 marzo del 1978 in cui il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, venne sequestrato dalle Brigate Rosse nell’agguato di via Fani durante il quale furono ferocemente uccisi gli uomini della sua scorta.

Nel ripercorrere i 55 giorni che sconvolsero l’Italia con il sequestro, l’incarcerazione nella “prigione del popolo” e l’esecuzione capitale di Moro ad opera delle Br, la narrazione cronologica degli eventi di una delle pagine più funeste della storia italiana è costruita con rigore e asciuttezza e resa scorrevole dal serrato ritmo che scandisce il dialogo tra le interviste ai protagonisti di quei giorni, dai testimoni diretti ai politici, dai responsabili delle indagini alla “postina” Adriana Faranda, il materiale di repertorio video e fotografico, e i simboli di quei fatti, auto e lettere autentiche del leader Dc e delle Br.

La salda impressione è che il film-documentario si offra come sorta di corrimano storico alla mai esaurita discussione sulla scelta che quarant’anni fa impegnò l’allora governo tra salvare Moro o sacrificarne la vita e sulle ragioni politiche e di convenienza che spinsero l’esecutivo ad escludere la trattativa con le Br. Un dialogo che comunque, troppo tardi, Amintore Fanfani avrebbe poi caldeggiato.

Al di là della cifra asciutta e restia a qualunque sbavatura celebrativa, e al netto dello scivoloso e accidentato perimetro di discussione sulla scelta che quarant’anni fa impegnò l’allora governo e sulle ragioni politiche e di convenienza che spinsero l’esecutivo a scegliere la linea della fermezza che segnò la genesi del futuro Partito Democratico, c’è però un elemento che il lavoro di Ezio Mauro mette a fuoco come probabilmente mai è stato fatto in questi quarant’anni, e che colpisce, probabilmente in riverbero della recente seppur minoritaria sensibilità verso i rapporti di malata contiguità tra stampa, procure e circuiti investigativi preposti alle indagini. C’è infatti un momento delle vicende narrate nel documentario che di questo nocivo sodalizio sembra in qualche modo essere uno dei precedenti fondanti: quando le già flebili possibilità di stanare i “carcerieri” di Moro vennero irresponsabilmente pregiudicate dall’ingresso dei media nelle indagini che avevano condotto a uno dei covi-arsenali delle Br a via Gradoli, abitato dai brigatisti Barbara Balzerani e Mario Moretti a seguito di una leggerezza della stessa Balzerani e in un primo tempo trascurato dalla polizia poiché non rispondeva nessuno.

Certo è che la pubblicazione immediata sulla stampa e tg di quel momento cruciale delle indagini (insipientemente gestito anche dalle forze dell’ordine che, dopo l’intervento dei Vigili del fuoco, avrebbero dovuto richiudere la porta dell’appartamento e attendere il ritorno dei brigatisti) rappresentò la salvezza per Balzerani e Moretti. Non per Moro, che giorni dopo venne assassinato.

Uno scenario, quello delle telecamere e dei giornalisti acquartierati all’ombra di procure e uffici di polizia giudiziaria che entrano a gamba tesa nella delicatissima fase delle indagini in qualsiasi procedimento penale, dopo quarant’anni diventato consuetudine, e che ci sono buone ragioni di ritenere che allora abbia contribuito ad amputare forse l’unica via per risparmiare a Moro l’esecuzione capitale.

Oggi, invece, in nome di un diritto di cronaca che confligge pesantemente con i diritti degli altri protagonisti di una qualsiasi vicenda giudiziaria previsti dai codici e dalla Carta costituzionale, condiziona l’opinione pubblica, lo sviluppo dei processi e l’amministrazione della giustizia. Allora una scellerata intrusione dei media inquinò e recise una possibilità di dare un esito diverso a ciò che poi scaturì in una tragedia umana, politica e per il Paese. Adesso un distorto e scarrocciato diritto di cronaca e il conseguente processo mediatico in cui viene data voce alla sola fase delle indagini con pubblicazione dei contenuti la cui segretezza è pur tutelata dai codici, spalmandosi sulla tesi dell’accusa, mettono in atto senza la minima remora deontologica azioni lesive delle garanzie processuali dell’individuo, in vicende ancora sub iudice, ancor più barbaramente in occasione dell’esecuzione delle misure cautelari personali, della dignità personale nonché della doverosa serenità e del mancato condizionamento del giudice.

È e sarà sempre una miscela esplosiva e un vulnus mortale ciò a cui conduce la sinergia tra cedevolezza e permeabilità delle autorità giudiziarie e di polizia, agevole rivelazione anticipata degli eventi e dissennato diritto di cronaca. Quarant’anni fa così come adesso e nel futuro giustizialista e populista che (forse) ci aspetta.

Aggiornato il 17 marzo 2018 alle ore 10:54