La rivolta parte dall’Ilva

mercoledì 11 ottobre 2017


La proprietà dell’Ilva intende risparmiare sui costi di produzione, quindi mantenere dei 14200 operai solo quelli con contratto di “Jobs act”, il resto (quasi 10mila) è loro intenzione licenziarli. Obiettivo? Ridurre i costi iniziando dalle maestranze, soprattutto portare entro un quinquennio il salario dell’operaio italiano d’altoforno allo stesso livello retributivo dei siderurgici romeni, bielorussi e ucraini. Ovvero portare gli operai italiani ad accettare una forbice salariale netta in tasca sotto i 700 euro mensili. E per dire poi loro che in Romania ne percepiscono 500. Non è una trattativa normale, e il Governo lo sa. Ma al Welfare (ministero del Lavoro) sanno anche di non potersi opporre all’attuale proprietà, e perché sulle riduzioni di personale e salari l’attuale proprietà dell’Ilva ha ottenuto il plauso delle famigerate agenzie di rating, le stesse che ritengono l’Italia debba far quadrare i conti aumentando i licenziamenti e diminuendo il costo del lavoro.

Intanto la Fiom, viste le premesse, ha deciso di disertare i tavoli di trattativa romani tra sindacati, governo e nuova proprietà. Lunedì prossimo i metalmeccanici dovrebbero ricevere la solidarietà in piazza anche dei disoccupati, l’obiettivo è paralizzare Genova, Taranto e Novi Ligure, ed a costo d’arrivare anche ad un confronto duro e fisico con le istituzioni.

Tutto ha avuto inizio nello stabilimento di Cornigliano, dove la nuova proprietà dell’Ilva (Am Investco) ha deciso che su 1499 dipendenti in organico vi sarebbero 599 esuberi (quasi la metà della forza lavoro) da licenziare in tronco. Anche a Taranto la musica è la stessa l’Am Investco (cordata composta da ArcelorMittal e gruppo Marcegaglia) vuole dimezzare i dipendenti, per far calare il costo del lavoro. In accordo con la proprietà Ilva sarebbero i tre commissari (Piero Gnudi, Enrico Laghi e Corrado Carrubba).

Di fatto la strategia sarebbe quella di licenziare tutto il personale, e per far perdere ai dipendenti sia l’anzianità di servizio che l’integrativo aziendale: tutti soldi risparmiati che rimarrebbero in tasca alla proprietà. Di fatto la nuova proprietà Ilva vorrebbe poi scegliere chi riassumere tra i 14200 licenziati, e utilizzando criteri legati al nuovo piano industriale che prevede lavoratori non iscritti a sindacati, mansueti e disposti ad ogni mobilità e sacrificio, accettando anche i nuovi profili retributivi. I più bravi e utili tra i licenziati vincerebbero il posto di lavoro. Una strategia che la nuova proprietà avrebbe concordato con i vertici dell’Ue, e appellandola come “discontinuità aziendale”. Il Governo non sa cosa dire ai futuri disoccupati, quindi promette loro (per bocca del ministro della coesione territoriale) che i lavoratori non più in organico “saranno impiegati per le attività di bonifica e risanamento ambientale nelle zone attorno il perimetro aziendale”.

Intanto i 2900 esuberi di Taranto salgono a 3400, sommando quelli di società come “Taranto Energia” (il sito pugliese che gestisce le centrali elettriche”. L’operazione è evidente, rottamare i vecchi contratti nazionali dei metalmeccanici per applicare ai licenziati in riassunzione il “Jobs Act” con relativa perdita delle garanzie dell’Articolo 18. A differenza di Genova, il nazionale sarà presente all’incontro del Mise “per conoscere cosa vorrà fare il Governo”. Intanto l’Am Investco ha già avanzato l’azzeramento dell’anzianità di servizio, per ottenere la cancellazione dei premi di produzione. Intanto ArcelorMittal, che fa parte delle nuova proprietà, ha già fatto sapere al governo che l’azienda lavora con le regole pattuite per l’Italia dall’Unione europea, e che sono gli italiani che vorrebbero violarle chiedendo la conservazione dei vecchi contratti e delle vecchie garanzie. Il dissidio è forte, lascia sperare possano incendiarsi le polveri. Permettendo a disoccupati e lavoratori di disarcionare la classe dirigente che sta reintroducendo in Italia forme di sfruttamento che pensavamo archiviate.


di Ruggiero Capone