Un federalismo finalmente nazionale

Subito dopo il Referendum Segni sul Collegio uninominale, in un’affollata riunione dei Popolari per la Riforma (il movimento da Mario Segni stesso fondato), chi scrive ebbe a dire che la vittoria referendaria avrebbe determinato, inevitabilmente, la creazione di due blocchi, centrodestra e centrosinistra e che, da lì in poi, compito dei referendari sarebbe stato quello di aiutare l’evoluzione democratica del Paese, occidentalizzando la sinistra e costituzionalizzando la destra e che, ognuno di noi, avrebbe dovuto impegnarsi su un versante o l’altro, secondo la sua personale visione e i suoi valori. Io sono tornato da poco in Italia, dopo vent’anni all’estero. Allora, non avevo dubbi, da antico liberale malagodiano che aveva mosso i passi giovanili in politica contro il primo centrosinistra, con il Pli scomparso e non ancora rinato. Potevo stare solo a destra. Una nuova destra patriottica, convinta dei valori della democrazia.

E così fu, il Msi di Gianfranco Fini e Pinuccio Tatarella si aprì veramente a idee e uomini nuovi e Alleanza nazionale, anche prima della nascita di Forza Italia con Silvio Berlusconi, toccò, con Fini candidato sindaco, il 48 per cento alle elezioni comunali di Roma. Mentre a sinistra Romano Prodi compiva la stessa operazione con i comunisti. Uomini che provenivano dal centro si mettevano personalmente in gioco, alleandosi con le due estreme, per arrivare ad una democrazia compiuta e finalmente reale, perché capace di decidere tra vere alternative.

In non molti se ne accorsero, ma, sul piano politico, fu un’operazione nella più pura tradizione giolittiana: coinvolgere, nella gestione democratica della nazione, tutte le forze che ne erano state fin lì escluse. E la cosa funzionò. I nuovi sistemi elettorali, tanto nazionali che locali, portarono ad una maggiore stabilità e, in fondo, anche ad una maggiore comprensione reciproca (rispetto al dopoguerra, a Scelba, all’epoca di Tambroni o agli “Anni di piombo”), senza più bisogno di consociativismo. Ed il momento più evidente di questa nuova stagione fu l’elezione condivisa di Ciampi alla Presidenza della Repubblica. Poi si commise l’enorme errore di abolire il Sistema uninominale per tornare al Sistema proporzionale, che non solo non garantisce la governabilità, ma, nella nuova versione adottata (senza preferenze e con liste bloccate), annulla anche la reale rappresentanza degli elettori nella scelta dei parlamentari, vanificando così, pure il merito del vecchio sistema della “Prima Repubblica”, di garantire almeno la presenza dei piccoli partiti storici. Un disastro, uno dei maggiori della storia della Repubblica.

Il Parlamento divenne luogo dominato dalla peggiore partitocrazia, con parlamentari nominati dai vertici, senza più la necessità di candidature credibili per affermarsi nei singoli collegi. Si ebbero, inoltre, governi più instabili, indeboliti inoltre dal continuo cambi di casacca di deputati a cui erano lasciate solo le dimissioni dal proprio gruppo, per recuperare un po’ della loro autonomia di parlamentari. L’Italia si è trovata così con istituzioni inadeguate proprio nel momento di una grave recessione economica internazionale e il malcontento, dilagando, ha spinto molti cittadini al non voto o al ribellismo più cieco e disinformato, dando vita al fenomeno del grillismo, che ricorda l’effimero movimento protestatario del comico francese Coluche.

La crisi di fiducia, accentuatasi a seguito del fallito tentativo referendario di stravolgere la Costituzione, colpisce oggi soprattutto la sinistra, principale componente del Governo, anche perché si è innestata sul fenomeno di rigetto di una immigrazione illegale africana, che, per le sue dimensioni di massa, ha assunto le caratteristiche di invasione, senza che la sinistra sapesse reagire, se non con una inaspettata regressione alle origini, con leggi liberticide come la legge Fiano o la confisca preventiva dei beni, senza attendere il processo, dei semplici sospettati di vari reati. Il centrodestra, che sembra di nuovo godere di un trend positivo, ha visto comunque anche al suo interno gli effetti di una tendenza alla radicalizzazione, con la relativa minore incidenza delle componenti moderate, rispetto alle altre. Soprattutto la Lega, uscita da una grave crisi che l’aveva ridotta ai minimi termini a seguito dell’incriminazione dell’allora segretario, si è affermata prepotentemente come un soggetto trainante e in crescita, grazie ad un cambio radicale di prospettiva politica. Quello che era un partito “localista” al limite del secessionismo, legato nell’Unione europea ad altre piccole realtà locali, cerca di diventare un partito a dimensioni e prospettive nazionali, vicino a partiti europei fortemente nazionalisti come il Front National francese, l’Ukip britannico, i liberali austriaci, l’Afd tedesca e tanti altri, dall’Olanda all’Ungheria, sviluppando anche rapporti fuori dall’Europa da Putin a Trump.

La Lega sta vivendo un processo di crescita e profonda modificazione simile, per ampiezza, a quello che a suo tempo coinvolse l’Msi, solo che nel suo caso non si tratta di costituzionalizzazione, ma di rinazionalizzazione, di inserimento permanente nel tessuto di tutto il Paese, destinato a portarla al Governo in una posizione assai diversa da quella del passato. Un processo che, al vecchio Giolitti, sarebbe certo piaciuto. Varie considerazioni hanno condotto la Lega verso questo approdo, la prima è ovviamente la semplice constatazione che raccogliendo voti solo al Nord si sarebbe condannata in perpetuo ad un ruolo minore di fronte a partiti con ben maggiore rappresentanza parlamentare, la seconda che il figlio di due italiani di Pantelleria trasferitisi a Trieste o a Reggio Emilia, sarà visto, sarà e si sentirà, completamente triestino o reggiano, a differenza di un africano musulmano che, in troppi casi, non desidera affatto assimilarsi (se lo facesse davvero sarebbe un ben minore problema), la terza la presa d’atto che il “localismo” realmente difendibile, di fronte alla globalizzazione, è ormai, solo quello nazionale.

La Lega, come altri movimenti simili in tutta Europa, ma anche nel mondo, ha sempre avuto qualche buona ragione, alla sua origine, nella difesa di un mondo che mantenesse le sue storie e le sue tradizioni, le sue differenze, i suoi linguaggi, le sue architetture, rifiutando una corsa senza fine verso l’uniformizzazione, l’omologazione, la massificazione. La Lega è sempre stata anche abbastanza immune da venature stataliste, presenti invece in alcuni degli altri movimenti “sovranisti”, il liberismo, grazie soprattutto a Pagliarini, è stato una delle caratteristiche leghiste fin dalle origini, anche se non era sempre portato fino alle conseguenze finali di non limitarsi a trasferire competenze e poteri dallo Stato centrale, ai territori, ma di ridare finalmente maggiore autonomia e libertà decisionale al singolo, alla persona. Dove la Lega mancava clamorosamente era nell’ignorare la dimensione nazionale, tanto nella difesa di uno specifico italiano nei confronti delle invasioni extracomunitarie e dell’omologazione globalista, che nella nostra affermazione all’interno di una Unione Europea che resta veramente necessaria. Dimensione nazionale ben presente anche sul piano dei sentimenti, in milioni di italiani che si sentono tali e non figli di entità nuove più o meno bene inventate. Io, ad esempio, mi sento un italiano di Reggio Emilia, non mi sento e non mi sono mai sentito un “padano”.

Matteo Salvini non ha solo salvato la Lega da un declino che sembrava inarrestabile, ma, con una classe dirigente nuova, penso a Giorgetti, a Centinaio e ad altri, ha cominciato a riconciliare la Lega con la nazione e questo è un suo merito storico di cui tutto il Paese, ma in particolare il centrodestra, dovrebbe essere grato. In Italia poi, l’intelligenza politica di Berlusconi, pur con molte incertezze e contraddizioni, non ha mai chiuso la porta alle destre radicali (a differenza della Francia, dove la chiusura totale dei gollisti, ha sì determinato la sconfitta di Marine Le Pen, ma anche la loro, aprendo la strada a Macron), per cui una Lega nazionale è utilissima per fermare una sinistra che non è quella liberale di Macron, ma quella insofferente e sbrigativa di Renzi, alla testa di un partito con segni autoritari di un post-comunismo di ritorno. Lo stesso Referendum consultivo nel Lombardo-Veneto, alla luce della linea di Salvini, assume un significato meno inquietante di quello che avrebbe potuto avere (e che forse qualcuno dei proponenti aveva anche maliziosamente pensato).

Se il Referendum avrà il significato di riprendere in esame le storture dell’Ordinamento regionale, come quelle che impongono enormi trasferimenti privilegiati verso regioni a statuto speciale, anche quando queste siano ben più ricche della media nazionale, o di far ripensare regole confuse che alimentano contenziosi o bloccano i grandi lavori infrastrutturali, potrà forse essere un’occasione di crescita e non di scontro alla catalana (o alla jugoslava). Chi scrive è abbastanza neutrale su di un assetto statale federale come in Germania o centralista come in Francia.

L’importante è che il cittadino sia libero, la proprietà sia salvaguardata, le tasse scendano e la nazione sia più efficiente e forte, come in Francia e in Germania. Quando la Lega nacque in molti la guardammo con interesse. A Roma, la città dove vivo, sembrò per un attimo che dovesse davvero nascere, in una piccola e disadorna sede vicina al Pantheon, la Lega Italia Federale, proiezione su tutto il territorio nazionale della Lega Nord. Poi, il secessionismo prese il sopravvento e la Lega perse una grande occasione per sé e per il Paese. E milioni di italiani non poterono più nemmeno considerarla. Speriamo che oggi Salvini possa riprendere e portare a termine quel progetto, perché l’Italia ha bisogno davvero di una cura radicale, liberale e libertaria. Ma l’Italia tutta, l’Italia unita.

Aggiornato il 02 ottobre 2017 alle ore 19:22