A proposito della riflessione di Galli della Loggia sul potere politico

Ernesto Galli della Loggia, dalle colonne del Corriere della Sera, s’interroga sul perché l’Italia non funzioni e ogni tentativo di cambiamento sia destinato a fallire. Il giudizio che ne scaturisce è tranchant: “In Italia non esiste più il Potere”. Il vulnus che paralizza il Paese inchiodandolo a una lunga teoria d’“incompiute”, in tutti i settori della vita pubblica, per Galli della Loggia, è provocato dalla perdita di decisione del potere politico che, di là dal mantenimento di una primazia soltanto formale, si presenta “condizionato, inceppato, frazionato. Alla fine spappolato”. La causa della degenerazione sarebbe rintracciabile nella perdita di peso specifico della politica che ha rinnegato la sua forza legittimante. “Perché ormai la vera legittimazione del potere politico italiano non deriva dalle elezioni, dalle maggioranze parlamentari, o da altre analoghe istanze o procedure”. La fine della spinta propulsiva dei partiti che hanno segnato i primi decenni di vita repubblicana ha coinciso con una sorta di “liberi tutti”, traducendosi in una rescissione - non è chiaro quanto consensuale - del patto che vincola la società civile al rispetto della legge.

La fotografia che restituisce Galli della Loggia è quella di un Paese che affonda in una condizione di “a-legalità” generalizzata. La scelta, tutta politica, di lasciare in pace i privati consentendogli d’ignorare i doveri connessi al rispetto della legge è causa del blocco del funzionamento complessivo dello Stato. A riguardo gli esempi si sprecano. E nulla si riesce a fare per invertire la rotta, perché “tra il potere del tutto teorico della politica da un lato, e il potere o meglio i poteri concreti e organizzati della società dall’altro, è sempre questo secondo potere a prevalere”. Il rimedio auspicabile? Per Galli della Loggia è che la politica ritrovi la strada maestra del legiferare, perché “una politica che rinuncia a impugnare la legge, a far valere comunque il principio di legalità, è una politica che rinuncia al proprio potere e allo stesso tempo mina lo Stato decretandone l’inutilità”.

Il ragionamento è interessante, ma non del tutto condivisibile. A cominciare dall’obiezione che di leggi non ve ne sono poche ma troppe. Se c’è qualcosa che rende un inferno in terra la vita del cittadino italiano è l’eccesso di leggi che disorienta anche i soggetti più avveduti. Piuttosto che invocare un’ipertrofia dell’ordinamento giuridico bisognerebbe chiedere alla politica di compiere una rivoluzione copernicana procedendo a un disboscamento della selva normativa e regolamentare. Lo scopo dovrebbe essere di rendere più agevole la vita alle persone, non di complicarla con più lacci e lacciuoli ordinamentali. Colpire le troppe leggi significa anche mettere un freno al potere della burocrazia che è un cancro di questo Paese.

Se Galli della Loggia ci spinge a una scelta netta tra un mondo fatto di più leggi e uno che ne abbia di meno, non abbiamo dubbi: optiamo per il secondo. Nondimeno restano tutti i guasti elencati nel suo articolo dall’autorevole preopinante, come lo definirebbe Alcide De Gasperi. Tuttavia, la spiegazione in base alla quale l’odierno fallimento del sistema sia del tutto riconducibile all’abdicazione della politica dalla sua missione prioritaria non convince. L’incidenza negativa degli innumerevoli gruppi d’interesse ostativi a un regolare andamento dei processi decisionali nelle articolazioni della Pubblica amministrazione la si deve a un vizio d’origine, un peccato originale, soltanto sfiorato da Galli della Loggia nelle sue argomentazioni. L’Italia è una nazione che ha nel Dna lo spirito e l’agire corporativo. Non è un’acquisizione recente ma un fattore consustanziale allo Stato unitario. Il sistema di governo della nazione è stato condizionato dall’innesto forzato di un apparato statuale prima liberale, poi totalitario e, infine, democratico, su un corpo sociale che, dal punto di vista valoriale, è rimasto intimamente corporativo. In alcuni momenti della Storia patria la dinamica corporativa ha funzionato, mentre in altri è stata totalmente paralizzante. In questa luce possono essere riconsiderati gli esempi proposti da Galli della Loggia riguardo al potere inibitorio dei gruppi d’interesse. Tassisti, magistrati, notai, pubblici dipendenti, fisioterapisti e podologi, avvocati, medici, giornalisti, sindacalisti, non c’è insieme di persone in Italia accomunato da un qualche interesse che non senta il bisogno di costituirsi in gruppo di potere. Parole come concorrenza, libero mercato vengono evocate nello stile dei mantra ma non attecchiscono nel sentire collettivo. Alla sfida imprenditoriale aperta e leale si predilige l’accordo di cartello grazie al quale, ad esempio, il vincitore di una gara per un pubblico appalto viene deciso a tavolino tra le parti in gioco. Chi vince prende e chi perde ha diritto a una compensazione.

Chiamatela lottizzazione, “Manuale Cencelli”, lobbying, logica spartitoria, oppure cultura mafiosa, la sostanza non cambia: spartire è meglio che competere. È per questo che da noi lo spirito anglosassone non trova quartiere. La differenza dirimente con il passato nel quale il Paese è riuscito comunque ad avanzare sul terreno dello sviluppo economico e sociale sta nella crisi dei partiti strutturati. Ciò che essi avevano e che gli odierni movimenti di matrice carismatica non hanno era, da un lato, una visione del mondo da offrire agli elettori, dall’altro la capacità di mediare tra le spinte concorrenti dei gruppi d’interessi che si riconoscevano, riguardo al potere della decisione, nel primato della politica agìta dai partiti. Sono stati dunque la perdita d’egemonia delle organizzazioni partitiche strutturate e la mancanza di idee sul futuro a generare la sfiducia nell’efficacia delle norme giuridiche e non il fatto che di leggi non se ne facciano abbastanza. Si vuole che la politica torni a esercitare un potere effettivo di guida della società? Allora tornino le ideologie che non sono una parolaccia. Anche con la nobiltà delle divisioni di campo che esse generano. Perché essere di destra o di sinistra, essere nuovamente su quelle traiettorie di senso, non è anacronistico. È bello.

Aggiornato il 24 luglio 2017 alle ore 19:34