Le figlie di Borsellino, Cossiga, Sciascia: tre “suggestioni”

Chiamatele, se volete, le suggestioni di un inguaribile sognatore che si è formato alla scuola di Alessandro Manzoni e di Piero Calamandrei, di Marco Pannella e di Leonardo Sciascia. Ascolto con crescente emozione il vibrante e composto intervento di Lucia Borsellino al Consiglio Superiore della Magistratura; e le parole della sorella Fiammetta, affidate al “Corriere della Sera”, e successivamente, nel corso dell’audizione alla commissione parlamentare antimafia. Posso, evidentemente, solo in parte immaginare il turbinio di sentimenti che ancora provano, nonostante siano trascorsi venticinque anni dall’uccisione del padre. Posso però credere che i loro interventi, lucidi e appassionati, proprio perché è trascorso tanto tempo, siano stati attentamente “pesati”, ogni parola scandita sia stata meditata; dette perché quello si voleva dire, e si sentiva l’imperativo morale di dirlo.

Passaggi ormai noti: quello alla procura massonica guidata all’epoca da Giovanni Tinebra che è morto, ma dove c’erano Annamaria Palma, Carmelo Petralia, Nino Di Matteo, altri...; il passaggio dove si sottolinea che “sono stati buttati venticinque anni di pentiti costruiti con lusinghe e torture...”. Le “lusinghe e le torture” erano, sono, le armi dell’Inquisizione; di ogni Inquisizione, di ogni tempo. “Mio padre”, dice sempre Fiammetta, “non si meritava giudici alle prime armi, sia chiaro”. Significa che se le inchieste su via D’Amelio sono state affidate anche a giudici inesperti, “alle prime armi” appunto, ciò non costituisce attenuante: colpevoli di dolo chi a quelle mani inesperte ha affidato le indagini; colpevole di colpa, almeno, chi ha accettato di condurle...

Ed ecco la prima suggestione dell’inguaribile “sognatore”. Non si deve, a questo punto, chiedere scusa (noi giornalisti, noi commentatori di pronto intervento a un tanto all’etto), al presidente Francesco Cossiga? Ve lo ricordate? Era ancora in carica, quando diede voce a una di quelle riflessioni che gli procurò la patente di “lepre marzolina”, come graziosamente lo definì “L’Economist”, mutuando l’espressione da quel “March Hare”, personaggio creato da Lewis Carroll in “Alice nel Paese delle Meraviglie”, e che compare assieme al “Cappellaio Matto” nella famosa scena del festino del tè...

Il “marzolino” Cossiga se ne uscì, una volta, dicendo che “non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”.

Da quella riflessione la sintesi “giudice ragazzino”, che si volle accostare a un giudice giovane e però non inesperto, Rosario Livatino: che lasciato solo, in terra di aspra mafia, alla fine per quel suo irriducibile impegno e senso dello Stato, venne ucciso. Tutti sapevamo che Cossiga non a Livatino si riferiva; pochi obiettarono alla campagna denigratoria che Cossiga dovette patire.

È utile, a questo punto, rileggersi la lettera che proprio Cossiga scrisse ai genitori del magistrato: “Cari signori Vincenzo e Rosalia Livatino, e, permettetemi di chiamarvi così, cari Amici! Non ho mai risposto prima all’ingiusta accusa di aver formulato nei confronti della nobilissima figura del vostro amato figliolo Rosario, giudice, coraggioso e integerrimo, esemplare servitore dello Stato, martire civile e, io credo, santo nel senso cristiano del termine: per la sua fede e per lo spirito con il quale ha affrontato la morte, il giudizio in senso di spregiativo di «giudice ragazzino», accusa che mi è stata mossa più volte e che ha dato perfino occasione di titolare in questo modo un film, che io ritengo non del tutto adeguato alla sua vita e al suo sacrificio. Non ho mai reagito.

Lo faccio ora perché questa accusa mi è stata nuovamente rivolta. Io ho usato, evvero!, questo termine: «giudici ragazzini»; ma mai l’ho fatto rivolgendomi a vostro figlio; bensì in senso affettuoso e comprensivo nei confronti di giovanissimi giudici che l’insipienza del Consiglio Superiore della Magistratura mandò allo sbando destinandoli a prestar servizio, quasi appena terminato l’uditorato!, nel nuovo Tribunale di Gela. E questo giudizio espressi dopo averli personalmente conosciuti al momento dell’inaugurazione dello stesso Tribunale, da me fatta quale Presidente della Repubblica, e facendo eco alle forti preoccupazioni che mi erano state formulate da loro e dal loro più anziani colleghi, il Presidente del Tribunale e il Procuratore della Repubblica. Ricordo invece il giorno triste in cui venni a Canicattì per partecipare alle esequie e alle onoranze del vostro caro figlio. E ricordo come voi, creando anche per me che ero allora capo dello Stato un senso profondo di commozione, voleste raggiungermi nella Chiesa dove io sostavo di fronte alla bara in cui erano ricomposte le spoglie mortali del vostro amato figliolo, vilmente assassinato, raggiungendomi a piedi in essa e non aspettando, come io mi ero proposto di fare, la visita che io avevo previsto, per rendervi onore, nella vostra abitazione. Sono sempre stato accanto a voi nel ricordo e nella preghiera in ogni anniversario del suo martirio e sono accanto a voi tuttora, augurandomi che Dio mi conceda ancora gli anni necessari per vedere la Chiesa riconoscere le virtù eroiche del vostro figliolo, così come lo Stato e la Nazione tutta ne hanno riconosciuto il Coraggio e il sacrificio al servizio dello Stato. È solo il giudizio della mia coscienza ed il vostro che mi interessa. Le ingiuste accuse, anche di recente rivoltemi da alcuni magistrati e da parte di volgari pennaioli, non mi riguardano. In coscienza io mi sento tranquillo. E lo sarei ancor di più se, come spero, pur nel silenzio, voi mi giudicaste nella vostra coscienza quale ammiratore del vostro figliolo e vostro fedele e riconoscente amico”.

Per tornare a Paolo Borsellino. C’è un altro passaggio delle dichiarazioni della figlia Fiammetta che va evidenziato: “Nessuno si fece vivo con noi. Non ci frequenta più nessuno. Né un magistrato, né un poliziotto”.

Ecco qui, la seconda suggestione. Le parole di Tullio De Mauro, fratello del giornalista Mauro De Mauro, fatto scomparire dalla mafia nel settembre del 1970. Tullio reagisce all’aggressione patita da Leonardo Sciascia, cui si rimprovera perfino di aver scritto “Il giorno della civetta”, romanzo che – a detta dei vari Pino Arlacchi e Andrea Camilleri – avrebbe esaltato la mafia: “I libri di Sciascia ci hanno aiutato ad aprire gli occhi sul fatto che la mafia non era un fenomeno folcloristico siciliano. E Sciascia si è sempre esposto in prima persona. Io sono stato coinvolto amaramente nel 1970 dalla scomparsa di mio fratello. A Palermo, dove insegnavo, gli amici, i colleghi, gli studenti, per strada non mi salutavano. Le persone che frequentavano la mia famiglia si contavano sulla punta delle dita. E Leonardo era lì, come in una serie di innumerevoli circostanze…Sciascia aveva intuito perfettamente la struttura internazionale della mafia e i suoi stretti rapporti con il mondo della politica”.

In sostanza, questo è il punto cruciale: il dire la verità, testimoniarla con parole e comportamenti, condanna – se va bene – alla solitudine. Dal momento che immancabile al due, c’è il tre, la terza suggestione. Ed è quella del difficile, tormentato compito del giudicare, dell’applicare la legge, del cercare di fare giustizia. E’ sempre Sciascia che soccorre, quello che volle scrivere a mo’ di prefazione, ad un mio vecchio libretto che narrava appunto “Storie di ordinaria ingiustizia”: “...Un giovane esce dall’Università  con una laurea in giurisprudenza; senza alcuna pratica forense e con poca esperienza, direbbe Manzoni, del “cuore umano”, si presenta ad un concorso; lo supera svolgendo temi inerenti astrattamente al diritto e rispondendo a dei quesiti ugualmente astratti e da quel momento entra nella sfera di un potere assolutamente indipendente da ogni altro; un potere che non somiglia a nessun altro che sia possibile conseguire attraverso un corso di studi di uguale durata, attraverso una uguale intelligenza e diligenza di studio, attraverso un concorso superato con uguale quantità di conoscenza dottrinaria e con uguale fatica. Ne viene il problema che un tale potere – il potere di giudicare i propri simili – non può e non deve essere vissuto come un potere. Per quanto possa apparire paradossale, la scelta della professione di giudicare dovrebbe aver radice nella repugnanza a giudicare, nel precetto di non giudicare; dovrebbe cioè consistere nell’accedere al giudicare come ad una dolorosa necessità, nell’assumere il giudicare come un continuo sacrificarsi all’inquietudine, al dubbio. Sappiamo, purtroppo, che non da questo sentimento e intendimento i più sono chiamati, vorremmo dire vocati, a scegliere la professione del giudicare. Tanti altri sono gli incentivi, e specialmente in un paese come il nostro. Ma il più pericoloso di tutti è il vagheggiare – e poi il praticare – il grande potere che la nostra società ha conferito al giudice come potere fine a se stesso o come potere finalizzato ad altro che non sia, caso per caso, quello della giustizia secondo legge, secondo lo spirito e la lettera della legge spirito – si vorrebbe – mai disgiunto dalla lettera. E l’innegabile crisi in cui versa in Italia l’amministrazione della giustizia (e crisi è forse parola troppo leggera) deriva principalmente dal fatto che una parte della magistratura non riesce a introvertire il potere che le è assegnato, ad assumerlo come dramma, a dibatterlo ciascuno nella propria coscienza, ma tende piuttosto ad estrovertirlo, ad esteriorizzarlo, a darne manifestazioni che sfiorano, o addirittura attuano, l’arbitrio. Quando i giudici godono il proprio potere invece di soffrirlo, la società che a quel potere li ha delegati, inevitabilmente è costretta a giudicarli. E siamo a questo punto. Ma non che il referendum sulla responsabilità dei giudici possa risolvere il problema, anche se può apporvi qualche rimedio il problema vero, assoluto, è di coscienza, è di “religione”.

Qui, ora, conviene fermarsi: che grazie agli interventi delle figlie di Borsellino, di Cossiga e Sciascia, di materiale per riflettere ne abbiamo in abbondanza, per ricavarne il giusto senso. Beninteso: non è detto che si sappia e si voglia farlo.

Aggiornato il 20 luglio 2017 alle ore 21:46