Moriremo tutti di anti-italianità

L’anti-italianità è il destino di questo Paese. Quell’essere “anti” senza costrutto e senza meta. Perciò, se l’erba del vicino è sempre più verde, allora solo una buona dose di diserbante della maldicenza può attentare al bene altrui e regalarci un pezzo di felicità. E così, avanti popolo diffamante. La geografia italica è marchiata da una messa in mora senza appello dei propri connazionali, è il ritratto di un’invidia sociale sempre latente e mai latitante, indirizzata inconsapevolmente e con indolenza nei confronti del proprio Paese. Questo italiota essere contro, si declina su più fronti: un genere molto diffuso è la generazione “anti-castista”, che si propaga nel terreno minato della globalità, con la sua nuova patria nella imperante nazionalità del web. L’entità rabbiosa che abita Internet si professa casta senza mai essere stata totalmente pura, e si connota per sapersi trasformare in mestierante dell’opportunismo, se le convenienze lo consentono. A partire dalla politica che nasce come “vaffa” e diventa populismo senza popoli, solo il partito leggero e nebuloso dei “like” e con la costituzione del blog. Quello che vuole la condivisione dei post come metodo di governo.

Si è tutti castisti, pronti a castrare le debolezze altrui, ma annullando gli egoismi propri. Altra categoria degli “anti” è la nutrita pattuglia dei professori dell’antimafia, un esercito di cultori della materia, veri e propri paladini del venticello dell’insinuazione, della metafora che diventa verità. Tutti cerimonieri della prima fila commemorativa, pronti a raccogliere i frutti del linciaggio - non importa se il fatto sia vero o verosimile - qualcuno persino assurgendo a star televisiva. Mentre per i più ortodossi e integralisti, invece, si spalanca la lode con una cattedra universitaria, salvo scoprire che sono essi stessi mafiosi. Narcisi pronti a specchiare i difetti altrui, ma distratti a vedere le ombre dei peccati nello stagno della propria ipocrisia, senza mai essere stati nella trincea del dolore e del tessuto sociale dove la teatralità mafiosa mette in scena i propri orrori. Tutti pronti ad arringare dal pulpito, ma pochissimi a sporcarsi le mani nella melma della propria coscienza.

Ma la madre delle battaglie sventolata sulla bandiera dell’”anti” è quella sul fascismo. Mi è sempre sembrato imbarazzante essere fascisti, come lo era essere preti ortodossi del comunismo, commiserevole che “chiagni e fotte”. Oggi, questo sentimento viene cavalcato scientemente da politici senza pudore, un antifascismo fuori tempo e fuori luogo, buono solo per spostare l’attenzione dalle problematiche più dolenti e urgenti per la società al presunto pericolo fascista, con i suoi minacciosi monumenti che hanno caratterizzato l’ultimo baluardo di modello architettonico e arte del nostro Paese. C’è una simmetria culturale tra il popolo del “vaffa” e la strumentalità dell’antifascismo d’accatto, bevono entrambe nella stessa acqua dell’immoralità intellettuale. Pronti a passare da “libro e moschetto” all’attuale in iPad e rossetto.

Come non condividere il pensiero di un pericolo e sedicente fascista: “Mi chiedo, caro Alberto, se questo antifascismo rabbioso che viene sfogato nelle piazze oggi a fascismo finito, non sia in fondo un’arma di distrazione che la classe dominante usa su studenti e lavoratori per vincolare il dissenso. Spingere le masse a combattere un nemico inesistente mentre il consumismo moderno striscia, si insinua e logora la società già moribonda” (Pierpaolo Pasolini ad Alberto Moravia, 1973).

La messa è servita.

Aggiornato il 21 luglio 2017 alle ore 15:36