Le invasioni barbariche bis e l’accoglienza

martedì 18 luglio 2017


Non mi importa che qualche altro scimunito, tirapiedi, magari di qualche profittatrice o profittatore con residue speranze di carriera, ridicolo custode di supposti ortodossi e liberali mi definisca nazionalista, fascista, reazionario, perché non accetto il dogma catto-laico di Sinistra dell’ “accoglienza”.

Parlare di “accoglienza” di fronte ad un’invasione, solo perché gli invasori non sono palesemente armati” è espressione di consumata e professionale ipocrisia o di dissennata sciocchezza ed ignoranza.

Sì, di ignoranza. Perché circa diciassette secoli fa, altri migranti, denominati allora “barbari”, perché il termine significava semplicemente stranieri, dal Nord (spinti, pare, da mutazioni climatiche che lassù  rendevano più difficile la vita ed attratti dal miraggio dell’opulenza, in verità declinante per gravissima crisi, dell’Impero Romano) si rovesciarono verso il Sud, occupando dapprima i “limes”, le regioni di confine. Ritenere che tali “invasioni barbariche” avvenissero sempre con la forza delle armi è un grave errore. Per lo più, almeno all’inizio, l’invasione ebbe la forma di “migrazione” più o meno pacifica. I vari popoli del Nord si insediarono nella Gallia, nelle Rezia, nella Dacia, dove furono per lo più arruolati nella grande industria di allora: quella militare, che produceva saccheggi e mano d’opera schiava. Una economia in sé impossibile a perpetuarsi e che, proprio il ricorso all’arruolamento degli invasori-migranti rendeva, come un circolo vizioso, assurda e condannata alla fine.

Le prime invasioni armate furono probabilmente piuttosto delle rivolte di migranti, che le armi le presero dopo essersi insediati nelle regioni confinarie (i “limes”) tornando sotto i governi di loro capi.

Ora io non dico che la storia tonerà a ripetersi, perché mai si tratta di “ripetizione”. Ma nessuna fase della storia è tale da non potersene (e doversene) rilevare coincidenze ed assonanze con quella di epoche passate. L’invasione, allora, fu tanto più evidente e poco governabile, quanto più l’identità degli invasori fosse diversa da quella dei popoli ormai romanizzati o in corso di romanizzazione e quanto più essi guardassero al mondo romano non solo con invidia, ma con ostilità e più o meno manifeste intenzioni di conquista.

Credo che queste considerazioni semplici (ma volutamente ignorate e scansate con scandalo ed indignazione) bastino a consigliare una visione meno miope della realtà migratoria. Non è certo mia intenzione trarne argomento per profetizzate la storia di un nuovo Romolo Augustolo e di un altro Odoacre (ma ad Alarico ci siamo quasi). Certo è, per abbandonare la visione del passato e guardare al presente, che oramai il ritmo degli “sbarchi” e delle altre forme di ingresso abusivo (nessuno venga a dirmi che l’ingresso “abusivo” sia solo quello di qualche turista col passaporto scaduto o il bagaglio non in regola) che il ritmo degli arrivi di cosiddetti migranti nel nostro suolo è palesemente insostenibile.  Pretendere di risolvere il tutto conferendo la cittadinanza, con un per più versi incontrollabile “Ius soli”, è stupido e provocatorio. Se oggi protesstano i sindaci dei Comuni in cui quei poveracci vengono accatastati, domani, quando sarà troppo tardi, protesterà l’intera Nazione o quel che ne resterà. E l’Europa, che ci sta dicendo che il problema dei migranti afroasiatici “è cosa nostra”, è un’Europa ottusa e miserabile che, di fatto, si dimostra disposta a mollare il “limes” Italiano, o ridurre i suoi confini alle Alpi. A non essere, così, più Europa.

Chi da questa considerazione volesse trarne argomento per un moto di stizza antieuropeo, per un “No all’Europa” che faciliti e si indentifichi con l’abbandono che l’Europa finisca col fare di Noi è uno sciocco pericoloso quanto e più i nostri ineffabili ed ipocriti governanti, predicatori laici ed ecclesiastici. Un’ultima considerazione. Mi pare (non sono un osservatore troppo affidabile) che da qualche tempo Bergoglio preferisca evitare l’argomento dell’accoglienza. Come ha sempre taciuto su quello della solidarietà almeno europea nei confronti del paese primo invaso, l’Italia. Forse si rende conto che non è il momento migliore per ottenere quel consenso e quel plauso che la sua raffinata saggezza gesuitica gli fanno ritenere essenziale. Speriamo che le tempeste autunnali, il “vento divino” dei giapponesi che li salvò dall’invasione cinese e che sospenderà per un po’ quella del nostro Paese, non gli facciano tornare la voglia di tornare a predicare l’“accoglienza degli invasori”.


di Mauro Mellini