Consiglieri del Principe, economisti à la mode

Indirizzi e ricette di politica economica non prendono forma in vuoti pneumatici ma riflettono universi valoriali e opzioni politiche dei proponenti. Nulla di cui scandalizzarsi, come osservava Sergio Ricossa, recentemente scomparso, nel suo I fuochisti della vaporiera. Gli economisti del consenso, apparso nel 1978 e ripubblicato ora da Ibl Libri (con la prefazione di Alberto Mingardi).

Fin dagli anni Trenta del Novecento, economisti come Gunnar Myrdal e Lionel Robbins stigmatizzavano l’erronea abitudine di presentare opinioni politiche come conclusioni scientifiche, vale a dire principi normativi come evidenze logiche. Stante l’inesistenza di fini economici, è possibile solo individuare modi economici ed antieconomici per conseguire determinati obiettivi.

Consiglieri del Principe ed economisti à la mode vengono così messi alla berlina dall’economista torinese non perché condizionati dai residui paretiani (che tale condizionamento è antropologicamente inevitabile) ma in quanto spacciano le costruzioni intellettuali erette su tali elementi sentimentali e irrazionali come oggettive e scientificamente comprovate. Vari sono gli zeitgeist di cui tra Otto e Novecento i colleghi di Ricossa si sono eretti in Italia a massimi interpreti; da quello liberale a quello comunista, nella versione berlingueriana dell’austerità anticonsumista, passando per quello keynesiano. E proprio negli ambienti del Pci e della Cgil è maturato negli scorsi decenni uno dei frutti più velenosi del bendiano tradimento dei chierici, della resa allo spirito del tempo.

Siamo nel 1967. Il sindacalista e parlamentare comunista Luciano Lama lancia la “assurda teoria del salario come variabile indipendente” rispetto all’andamento della produttività. È la débâcle, il naufragio degli uomini di scienza o presunti tali. “Gli economisti - scrive Ricossa con penna intinta nel fiele - invece di insorgere come un sol uomo contro la fandonia, scantonavano. Alcuni eruditi pescavano, in un libro pressoché illeggibile di Sraffa, dei passi che forse potevano essere interpretati in senso favorevole a Lama. Vi si facevano ipotesi per cui nulla spiegava il salario se non l’opposta forza contrattuale dei sindacati e dei padroni. Ma nelle economie terrestri, non quelle marziane o altre di fantasia, era evidente la falsità della tesi. Finita la moda sindacale, nel 1977, Lama medesimo avrebbe riconosciuto che la trovata della ‘variabile indipendente’ era una fandonia gesuitica detta ‘a fin di bene’. Il livello del salario nei contratti di lavoro dipendeva dalla volontà dei contraenti; ma non dipendevano dalla loro volontà le conseguenze”.

Ma, complici l’ignavia e la cortigianeria degli intellettuali organici e di complemento, le centrali sindacali già all’inizio degli anni Sessanta avevano palesato irresponsabilità e demagogia macroscopiche, come ricorda Piero Craveri nel suo recentissimo L’arte del non governo. L’inarrestabile declino della Repubblica italiana, facendo della Pubblica amministrazione, attraverso consistenti incrementi delle retribuzioni, il serbatoio del loro consenso clientelare, concorrendo così al progressivo sfacelo di un ganglio essenziale come l’amministrazione per uno Stato efficiente.

Aggiornato il 15 giugno 2017 alle ore 10:08