Il sistema “tedesco” che non è tedesco

Un sistema elettorale non è altro che un meccanismo per la traduzione dei voti in seggi. Se ne conoscono tre tipologie fondamentali, ognuna caratterizzata da innumerevoli varianti:

1) sistemi elettorali maggioritari a turno unico in collegi uninominali, che assegnano il seggio al candidato che riceve il maggior numero di voti;

2) sistemi elettorali a doppio turno in collegi uninominali, che tentano di offrire un maggior grado di rappresentatività, richiedendo ai candidati – per risultare eletti – di ottenere la maggioranza assoluta dei voti espressi (50 per cento + 1 delle preferenze); se nessun candidato ottiene questa maggioranza al primo turno, se ne tiene un secondo, a cui partecipano, come in Russia, solo i primi due più votati ovvero tutti i candidati con una soglia minima di voti (nel caso francese, il 12,5 per cento);

3) sistemi elettorali proporzionali, congegnati per rendere la percentuale dei seggi attribuiti ai partiti quanto più possibile coerente con quella dei voti ottenuti alle urne su base nazionale o circoscrizionale.

Molteplici sono gli elementi inseriti tra le maglie di questi sistemi – soprattutto nei proporzionali, ove si cerca di semplificare il quadro politico a beneficio della stabilità di governo (da qui, ad esempio, le “soglie di sbarramento” e i “premi di maggioranza”). Dato che a tener banco è il dibattito sul nuovo progetto di legge elettorale, in discussione in queste settimane nelle aule parlamentari romane e nelle segreterie di partito, che pretende di ispirarsi al “sistema tedesco”, esaminiamo in estrema sintesi le peculiarità di quest’ultimo.

L’elettore tedesco dispone di due voti, da esprimere su un’unica scheda: con il primo voto, esprime una preferenza per uno dei candidati nel proprio collegio uninominale (il territorio nazionale è ripartito in 299 collegi) e il candidato più votato risulterà eletto al Bundestag. Il secondo voto serve invece a determinare la suddivisione dei seggi tra i vari partiti, e pertanto è determinante per la formazione di possibili maggioranze di governo. Con il secondo voto, l’elettore è chiamato a scegliere un partito, i cui candidati sono fissati su liste bloccate.

Tutti i 598 seggi del Bundestag sono attribuiti ai partiti in base alla percentuale, su scala nazionale, dei secondi voti, escludendo i partiti che abbiano ottenuto meno del 5% e meno di tre deputati eletti nei collegi uninominali. La ripartizione dei seggi avviene a livello di ciascun Land. Se i candidati di un partito, eletti con i primi voti, ottengono un numero di seggi maggiore rispetto alla ripartizione proporzionale (è possibile, infatti, il voto “disgiunto”), quel partito manterrà i seggi conquistati nei collegi uninominali e il numero complessivi dei seggi del Bundestag verrà aumentato dai 598 iniziali, per consentire la giusta ripartizione proporzionale sulla base dei secondi voti (elemento, questo, non trasferibile al caso italiano, poiché è la Costituzione a stabilire il numero dei parlamentari).

Nei Land in cui il numero dei deputati di un partito eletti direttamente è inferiore al numero dei seggi attribuiti proporzionalmente a quel partito, si colma tale differenza tramite i candidati presentati nelle liste secondo un ordine predeterminato. Del modello in uso nella Repubblica Federale Tedesca, il progetto di legge presentato all’approvazione delle nostre Camere conserva ben poco (o nulla): la nuova disciplina – sempre che riesca a superare gli intralci e i sabotaggi – prevede un sistema sostanzialmente proporzionale, con soglia di sbarramento al 5 per cento, con al suo interno un meccanismo maggioritario di dubbia utilità; gli eletti nei collegi uninominali, infatti, avrebbero semplicemente la “precedenza” nell’ottenere il seggio in Parlamento, ma l’impianto del sistema, nel suo complesso, resterebbe proporzionale.

Il territorio nazionale (esclusi Trentino Alto Adige e Val d’Aosta, che avranno regole diverse) verrebbe suddiviso in 28 circoscrizioni e 225 collegi uninominali, per la Camera dei Deputati, e in circoscrizioni regionali e 115 collegi uninominali per il Senato. I partiti presentano un candidato in ciascuno dei collegi uninominali e liste bloccate di candidati in ogni circoscrizione. Se in base al calcolo proporzionale un partito dovesse ricevere più seggi di quelli già conquistati nei collegi uninominali, si passerebbe a “pescare” gli eletti nelle liste circoscrizionali. Non dovrebbero esserci preferenze, quindi i candidati nei listini verrebbero eletti nell’ordine prestabilito. L’elettore avrà a disposizione un unico voto, con cui sceglierà il candidato nel proprio collegio uninominale e la lista di partito collegata (in Germania sono due i voti, per cui si può votare in modo disgiunto). Al termine della consultazione, si contano i voti e si stabilisce, su base circoscrizionale, quanti seggi spettano a ciascun partito. Sarà molto difficile sapere “chi ha vinto” il giorno dopo le elezioni. Anche questa volta, prevalendo l’interesse dei partiti a tenere sotto stretto controllo il quadro politico-istituzionale, si predilige un sistema che non garantisce alcuna stabilità nell’indirizzo governativo.

 

Eppure, nella nostra storia unitaria, è possibile rintracciare un buon sistema elettorale il quale, adeguato ai tempi, potrebbe essere rispolverato. Con Legge n. 210 del 5 maggio 1891, infatti, veniva sancito l’abbandono del sistema introdotto nel 1882. Perfettamente  in  linea  con  la politica  conservatrice messa in atto dal marchese di Rudinì, l’articolo 2 del provvedimento sanciva il ritorno all’antico, prevedendo nuovamente la suddivisione del territorio del Regno in 508 collegi  uninominali. La legge prevedeva un maggioritario a doppio turno: accedevano al ballottaggio i due candidati che al primo turno avessero ottenuto più voti (salvo maggioranze assolute raggiunte già al primo turno). La normativa confluì nel Testo Unico n. 83 del  28  marzo  1895. Il pregio dei sistemi elettorali maggioritari consiste nel radicare sul territorio gli esponenti politici, creando una relazione diretta tra elettori ed eletti. Insomma, si punta più sulla persona che sul partito, responsabilizzando maggiormente i rappresentanti e sottraendoli all’eccessiva invadenza delle formazioni partitiche.

Aggiornato il 14 giugno 2017 alle ore 22:08