Marx non è morto e Renzi non sta tanto bene

Il Partito Democratico ha un bel problema. Non essere riuscito, domenica, a fare incetta di sindaci già al primo turno ma vedersi costretto a rincorrere nei ballottaggi un centrodestra assai più tonico del previsto, è il segno di una débâcle che deve interrogare Matteo Renzi sul destino della sua leadership. Ciò che deve preoccuparlo non sono soltanto i voti che non ha avuto, quanto piuttosto quelli che hanno preso gli altri, soprattutto alla sua sinistra.

Il segretario del Pd ha fatto male i conti. Pensava che l’uscita dal partito del trio dei rancorosi, Bersani-Speranza-D’Alema, li avesse condannati a una fine ingloriosa nel dimenticatoio della Storia. Invece, un’area di consenso ricomposta sulle orme dei partiti socialisti occidentali del Novecento ha ancora una sua ragion d’essere. Anche se a noi sfugge quale sia, ma ce l’ha (vedi l’exploit della cariatide Jeremy Corbyn in Gran Bretagna). Il problema principale, però, è che quest’area è attraversata da molti rivoli che si contrappongono l’un l’altro. È pur vero che quando si sta tra puri e duri è sempre complicato stabilire a chi spetti la palma del campione. Renzi, che ha conosciuto da vicino i “compagni” venuti dal passato, ha finora fatto affidamento sulla loro congenita allergia a mettersi d’accordo. Il ragionamento del giovanotto è stato semplice: “fin quando i miei nemici giurati saranno affaccendati a farsi le scarpe l’un l’altro, la mia leadership non correrà pericoli”.

Ma il giovane capo del Pd non aveva prestato sufficiente attenzione all’improvviso attivismo di Romano Prodi che, a dispetto dell’età non più tenera, si è messo a trafficare con gli attrezzi da lavoro per issare la sua tenda fuori dal Partito Democratico ma alla distanza giusta per tenerlo d’occhio. Oggi Renzi sospetta che vi sia stato lo zampone del professore nell’agguato alla Camera sulla legge elettorale. E non sbaglia. Grazie alla vecchia guardia ulivista richiamata in servizio, è in atto una manovra d’aggiramento ai fianchi del Pd renziano.

L’obiettivo non dichiarato è quello di sottrarre centralità al principale partito del centrosinistra per degradarlo, alla lunga, al rango di componente non privilegiata di una coalizione avanzata di centrosinistra. Di questo nuovo rassemblement è evidente che il leader non sarebbe il giovanotto di Rignano sull’Arno. Va in questa direzione l’iniziativa unionista di Giuliano Pisapia. Renzi, fiutandone la pericolosità, ha tentato di attrarre a sé Pisapia. Ma gli è stato risposto picche. Pensare di seminare zizzania tra i vecchi sodali, fuoriusciti dal partito per idiosincrasia nei suoi riguardi, evidentemente è un gioco che non funziona più. Ma si tratta pur sempre delle prime mosse di posizionamento in una partita che si preannuncia lunga e dagli esiti incerti. Il primo vero problema che Matteo Renzi dovrà affrontare è la collocazione dell’ingombrante Romano Prodi. Se, a sugello delle schermaglie iniziali, il professore decidesse di spostare definitivamente la sua tenda nel campo della sinistra-sinistra, per il capo di un Pd orfano della sua divinità più osannata sarebbero guai seri. Renzi dovrebbe dire addio all’idea di un presto rientro a Palazzo Chigi. Neanche il sostegno di Forza Italia, coinvolta in un’operazione post-voto in stile “larghe intese”, gli basterebbe per avere la meglio su tutti gli altri. Il poveretto finirebbe per restare vittima delle sue astuzie.

Con un Silvio Berlusconi restituito al progetto dell’unità del centrodestra, un Romano Prodi intento a modellare la sagoma del nuovo federatore di stretta osservanza ulivista, una sinistra pronta a organizzarsi sui territori e un sindacato, la Cgil, che impartisce la benedizione a un’interlocuzione progressista nuova di zecca, a Renzi non resterebbe altro che sperare nella fedeltà degli alleati centristi. Che sarebbe come caricarsi sulle spalle uno scorpione facendo gli scongiuri perché non punga.

Aggiornato il 14 giugno 2017 alle ore 21:25