Immigrazione e parole

La parola ha certamente un significato profondo che va oltre il suo librarsi nell’aria, ed è vero che molte volte parole violente, dette e ridette, possono essere il veicolo per azioni violente. Ma anche il modificare il senso delle parole può essere una azione violentemente subdola nei confronti della realtà e di chi la subisce.

All’interno dello stesso movimento giornalistico c’è una centrale culturale che con l’idea di promuovere il bene nel mondo si è assunto questo onere legittimo. Parlo dell’associazione Carta di Roma, che sul linguaggio di come dobbiamo scrivere e parlare si è assunta l’onere di riscrivere il dizionario della lingua italiana su come noi giornalisti dobbiamo scrivere e come il popolo deve parlare per non favorire il proliferare di una cultura razzista, xenofoba ecc.. Certamente sono animati da buone intenzioni per cui non si rendono conto che il loro lavoro per quanto benevolo sia funzionale al Grande Fratello di cui parla George Orwell nel suo libro: 1984.

Nel loro decalogo sono abolite le seguenti parole: clandestini, immigrati, sostituiti con migranti o rifugiati, inoltre se avviene un reato compiuto da uno straniero ci consigliano di non menzionare la sua nazionalità perché farlo potrebbe stimolare un comportamento razzista della popolazione nei confronti di tutti gli stranieri. Ovviamente lo stesso paradigma lo si usa per il terrorismo, nel senso che indicare la matrice religiosa sarebbe una offesa per i credenti di quella religione che non hanno commesso reati.

Sicuramente c’è del vero nell’affermare che una comunicazione distorta possa creare allarmismo o, peggio, in menti deboli favorire comportamenti violenti verso una comunità intera per l’incapacità di saper distinguere il reo dalla maggioranza delle persone perbene, che sono la maggioranza della comunità interessata. Ma anche l’opposto, e cioè non fornire una comunicazione chiara su un fenomeno che sia terrorismo o l’immigrazione determina una duplice responsabilità: la prima è quella che non si permette di capire il problema per poterlo affrontare, la seconda responsabilità sta nel determinare una rottura pericolosa tra i cittadini e le istituzioni, favorendo una percezione di abbandono dello Stato verso di loro e dunque si possono determinare forme di intolleranza fai-da-te. In poche parole, la cura che si pretende in modo elitario e totalitario di praticare al popolo, determina l’opposto di ciò che si vorrebbe realizzare.

Dal sito leggiamo: “Sappiamo che rifugiato o migrante è la formula da scrivere, ma la gente su Google cerca clandestino e allora nei nostri articoli sul web dobbiamo usare quello”. Spesso alcuni giornalisti sollevano questa obiezione di fronte a chi invita a usare almeno nell’informazione un linguaggio appropriato per parlare di immigrazione”. Vorrei far notare che il termine immigrazione in lingua italiana è il trasferimento permanente o temporaneo di singoli individui o di gruppi di persone in un Paese o luogo diverso da quello di origine. Il fenomeno è l’opposto dell’emigrazione.

Dunque, escludendo coloro che arrivano in Italia per turismo il termine racchiude più situazioni: coloro che arrivano per lavoro per vie legali (tramite consolato), coloro che arrivano per vie illegali e cioè clandestini, coloro che fuggono da Paesi in guerra o vittime di discriminazioni e cioè rifugiati. La Convenzione di Ginevra ci obbliga ad accogliere i rifugiati, mentre per coloro che vengono nel nostro Paese per motivi economici non esiste nessun obbligo all’accoglienza.

Ci sono alcune visioni ideologiche del fenomeno: alcuni pensano che è un processo naturale e inarrestabile a cui bisogna rassegnarsi, altri con una visione apocalittica pensano che sia giusto accoglierli perché abbiamo depredato i loro Paesi nell’era coloniale; altri ancora pensano di un mondo senza frontiere dove ognuno è libero di andare dove gli pare e le nazioni sono solo il simbolo oppressivo del Novecento che tanti lutti e diseguaglianze ha creato. Per ultima, ma non per importanza, c’è una visione universalistica dell’accoglienza tipica della cultura cattolica nei confronti del migrante. Altro aspetto che volutamente non affronto è quello degli interessi economici deprecabili che sta emergendo da alcune inchieste nella gestione del fenomeno. Queste visioni del fenomeno migratorio interagiscono sul come gestire l’accoglienza: integrazione, assimilazione, multiculturalismo, relativismo culturale, etc..

Una maggioranza silenziosa pensa che gli immigrati devono rispettare le nostre regole e leggi ed essere trattati come gli italiani senza privilegi o sconti dovuti alla loro etnia o religione, ma è silente per paura di essere tacciata come xenofoba o razzista. Non si nota inoltre che è l’incapacità dello Stato a gestire il fenomeno che genera forme di rabbia sociale, nei cittadini prima di tutto, nei confronti dello stesso Stato. Questo buonismo mediatico-culturale ha la responsabilità di disorientare e indebolire le capacità di analisi nel confronto del fenomeno migratorio cercando di manipolare la realtà; il tutto avviene con lo stesso meccanismo dell’ideologia comunista oggi sostituita dall’ideologia del relativismo culturale. Si è passati con grande disinvoltura dalla cultura dell’assoluto a quella del relativo, che sono la stessa medaglia del pensiero autoritario, in quanto l’indifferenza valoriale, insita in questa visione del relativismo, è la condizione per affermare l’emergere del bisogno autoritario.

Aggiornato il 10 giugno 2017 alle ore 10:00