Rai, hic Rhodus hic salta

Le vicende della Rai, della più grande industria (pubblica) di informazione e di spettacoli come una volta veniva chiamata, contengono sempre un quid quasi inafferrabile, una sorta di significato nascosto se non di surplus “ad usum delphini”, ovvero del pubblico e della critica. In realtà, come sempre, anche quest’ultima svolta ha ben poco da nascondere. Non vi sono gialli, non esistono killer e giustizieri. Innanzitutto perché il direttore generale Antonio Campo Dall’Orto ha fatto quasi tutto da sé, e poi perché un’azienda come la nostra - e dico nostra perché trattasi di un servizio pubblico, e che servizio - contiene al suo interno regole e leggi scritte da decenni di storie, di eventi, di presidenti e - ancor di più - di direttori generali; ma anche e soprattutto di Presidenti del Consiglio. Figuriamoci poi se uno di questi, ora ex, si chiama Matteo Renzi, detto anche il governante rottamatore; qualifica assunta come programma di lotta e di governo, con tutte le contraddizioni e i limiti annessi e connessi.

Uno di questi limiti è emerso proprio già dalla scelta dell’uomo che a Renzi andava più a genio come direttore generale Rai, una carica e un incarico fra i più importanti e, allo stesso tempo, più nell’occhio del ciclone da quando un direttore generale è praticamente il “padrone” di un’azienda speciale come la Rai, con un Consiglio di Amministrazione non a caso dai poteri estremamente ridotti, ma con un altro personaggio, al di sopra, più padrone di lui: Renzi, oggi ex ma allora Presidente del Consiglio dal quale era stato fortemente voluto. L’allora Premier, come si scrisse, aveva bisogno per quell’ambito ma complicato ruolo, di un amico fidato, e questo sarebbe abbastanza naturale in un’azienda pubblica che fabbrica sogni, illusioni, spettacoli e, soprattutto, informazioni. E che Dall’Orto sia caduto proprio sulle informazioni offre la trama di un format con logiche interne ferree dal cui mancato rispetto la prima vittima non poteva che esser il pur bravo direttore generale. È la logica che si sdoppia nei due protagonisti, Renzi e Dall’Orto entrambi responsabili di quanto sta accadendo, ovverosia con un quasi intero CdA che ha sfiduciato il secondo ma con il tacito assenso del primo.

Finire in minoranza può capitare, e se finirci in quel modo è abbastanza curioso, il non accorgersene, come gli ha bonariamente indicato il nostro Diaconale, è quasi incredibile. In un luogo dove è sempre e comunque la politica che ne regge le sorti, nel bene e nel male. Talché, uno che se ne intende come Carlo Freccero, lo ha definito alla stregua del “Lo straniero” di Albert Camus, straniero in un campo che, invece, avrebbe dovuto conoscere a memoria e se ha fatto la figura di un qualsiasi “Chance il giardiniere” (La Stampa) la dice lunga sul personaggio, e dunque anche su Renzi, ora pentito di averlo “voluto” in quell’ambito posto. C’è come un messaggio che dall’interno di una vicenda a suo modo esemplare si esternizza a mo’ di lezione: che cosa deve essere un servizio pubblico radiotelevisivo alle prese con obiettivi non dilazionabili, fra cui la dotazione di contenuti tanto ambiziosi quanto innovativi (il piano dell’informazione, ora bocciato) e la definizione una volta per tutte dell’autentica missione di una Rai al passo coi tempi in grado di rispondere all’impegnativa, fondamentale e addirittura storica scelta: a chi devo, dovrei, dovrò rispondere: al mio azionista o al mercato? “Hic Rhodus hic salta”. Per ora è saltato il direttore generale.

Aggiornato il 23 maggio 2017 alle ore 21:47