Il populismo malattia senile del garantismo

Aveva un che di emblematico la manifestazione (piuttosto ristretta) degli avvocati romani davanti al tribunale contro l’ultima riforma Orlando. Gli avvocati fuori dal Tribunale, soli in un lunedì di sole pre-pasquale, come rondini intorno a un nido precario, erano un’immagine plastica della marginalizzazione di un movimento politico che sembra avere esaurito la spinta propulsiva. L’intento era quello di parlare alla “gente” (vero mito moderno), che di questi tempi sembra più propensa a mettere il sapone sui cappi piuttosto che la testa sui libri di Cesare Beccaria.

Recenti statistiche di fonti Ue ci raccontano di fiducia dei cittadini ai minimi storici verso i giudici. Eppure, a questo dato clamoroso non corrisponde alcuna minima crescita di popolarità dell’avvocatura italiana. Come mai? Temo che la risposta sia piuttosto semplice: gli avvocati sono considerati parte del (grave) problema della giustizia. Lungi dall’essere la difesa sociale degli angariati, essi per l’opinione pubblica sono l’altra faccia dell’ingiustizia. Distanti, indifferenti, poco inclini a spendersi, culturalmente e psicologicamente subordinati alla magistratura.

In questi giorni si sta concludendo quello che avrebbe dovuto essere una sorta di processo simbolo: “Mafia Capitale”. Ebbene, e spero ardentemente di essere smentito, con ogni probabilità l’avvocatura conoscerà l’ennesima, pesante sconfitta, che segnerà un profondo arretramento del livello delle garanzie nelle aule di giustizia. Nel posto cioè che gli avvocati dovrebbero realmente presidiare invece di picchettare gli ingressi. Una sconfitta non casuale, ma frutto di divisioni, mancanza di generosità, di una comune coraggiosa strategia culturale, dell’assenza. Una assopita acquiescenza a una serie di strappi procedurali che non tarderanno a divenire prassi.

Ci sarà tempo per tornarci, per intanto, e non ci voleva molto a capirlo, Roma non è Istanbul dove gli avvocati vanno in galera piuttosto di rinunciare a indossare la toga in aula. A Roma (e in Italia) il rischio è una lenta, inarrestabile auto-esclusione dai luoghi dove si decidono leggi e processi.

Aggiornato il 27 aprile 2017 alle ore 16:33