E se avessimo meno controlli?

Nell’anno di grazia 2017 le cose italiane non vanno affatto bene. Sì, il mondo non vive una fase brillante, c’è una crisi abbastanza generale di fiducia sulla capacità delle classi dirigenti a governare il nuovo (soprattutto per la loro difficoltà a comprendere realmente la scienza) e ad assicurarci un futuro, tuttavia il caso italiano si segnala per alcune sue peculiarità particolarmente negative, tutte nazionali. Ricordate Einaudi e i suoi “lacci e lacciuoli” che strangolano l’economia bloccando la libera iniziativa? Bene, oggi è molto peggio di quando l’economista (e statista) piemontese liberava le sue prediche inutili, oggi siamo all’asfissia. E i nuovi avvolgenti lacci sono essenzialmente di tre tipi: la moltiplicazione dei controlli (e della relativa burocrazia), l’estensione abnorme del principio di responsabilità (con la conseguente paura di fare) e il proliferare di nuove ambigue configurazioni di reato (e la derivante fine della certezza del diritto). Vediamoli da vicino e in ordine.

I controlli. Per provare a evitare imbrogli e disservizi si sono moltiplicati controlli, prima, durante e dopo qualunque impresa, appalto o transazione economica, moltiplicando contemporaneamente adempimenti burocratici, tempi e costi. I nuovi lacci sono diventati così catene, tali da imbrigliare fino a scoraggiarlo lo spirito di iniziativa, soprattutto per le nuove imprese che di solito sono meno strutturate e non comprendono agguerriti studi legali, per ottemperare e prima ancora comprendere, la miriade di difficoltose e spesso astruse norme. Nessuno può valutare esattamente l’effetto di scoraggiamento all’iniziativa privata della proliferazione abnorme dei controlli e dunque in definitiva l’impatto sul Pil, ma io credo sia enorme.

Il principio di responsabilità. Nella vana ricerca dell’espulsione della fatalità dalle vicende umane, si è esteso il principio di responsabilità per incidenti fino a livelli che è lecito definire assurdi, attraverso l’individuazione quasi obbligatoria di un capro espiatorio, a prescindere da reali colpe o negligenze, identificato quasi sempre nel capo dell’azienda o addirittura nel semplice proprietario, anche quando così operativamente lontano dai luoghi e dai fatti, da non poterne avere nessuna conoscenza diretta. L’applicazione senza limiti del principio del “non poteva non sapere”, oltre a ledere il principio cardine della individuazione di precise e concrete responsabilità personali, trattiene per paura moltissima gente dal cominciare a intraprendere o continuare a farlo, con gravi danni complessivi per il sistema economico (e per la vita delle persone) anche senza considerare quelli catastrofici di imprese che vanno addirittura fallite per la decapitazione del loro vertice.

Nuove ambigue configurazioni di reato. Cosa vuol dire ad esempio “concorso esterno in associazione mafiosa” o “traffico di influenze”? Il primo non vuol certo dire che fai parte della mafia (sarebbe semplicemente concorso in associazione mafiosa), non vuol dire che hai coperto un crimine di mafia (sarebbe favoreggiamento) e non vuol dire neanche che l’hai favorita in un appalto (sarebbe turbativa d’asta o corruzione o peculato, sempre con l’aggravante dell’associazione di stampo mafioso). Non può voler dire, spero, semplicemente che sei andato al battesimo della figlia di un mafioso o ti sei fatto fotografare con lui e altri cento alla festa del paese. Il traffico di influenze, poi, si presta pericolosamente a ogni possibile interpretazione estensiva. Se uno, ad esempio, ha un’antica reale e pulita amicizia con un imprenditore, che magari da anni ha suo figlio come dipendente, e, anche molto tempo dopo, semplicemente lo presenta a una pubblica amministrazione per proporre, che so, un sistema innovativo di gestione dei dati, questo è da considerarsi reato? Il risultato complessivo finale di tutto ciò è un ingessamento senza precedenti dell’intera economia italiana, con esiti fortemente negativi in termini di crescita economica e occupazione.

Sorge a questo punto spontanea la domanda di cosa succederebbe se diminuissimo fortemente controlli, adempimenti e rischi legali, per arrivare a un quadro generale più simile a quello americano o anche a quello che abbiamo conosciuto da noi negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta. Forse, o meglio probabilmente, sarebbe di nuovo boom, con più benessere e posti di lavoro. Una cosa buona, no ? Conosco l’obiezione, più strillata e finto indignata, che argomentata, e cioè che un simile modo di procedere porterebbe a ingiustizie, non sarebbe giusto. A questo punto si impone una riflessione: cosa vuol dire giusto? Attenzione perché mentre buono è un concetto primario, cioè esaustivo in sé (è buono ciò che fa bene) , giusto è invece un concetto derivato, perché legato a una scala di valori con la quale deve essere coerente, scala con cui si può essere d’accordo, ma anche al contrario trovare profondamente sbagliata. Molti reati, in Unione Sovietica, erano tali perché, nel sistema di valori comunista, è considerato ingiusto, ad esempio, arricchire o esercitare un’attività economica privata, non praticare la delazione o fondare un giornale libero. All’interno di quel quadro ideologico, molti più cittadini che non si creda, consideravano davvero ingiusto (e probabilmente considerano ancora) produrre per guadagnare o proteggere i dissidenti o diffondere notizie contrarie alla compattezza politica. E da noi, oggi, pur nella grande differenza di regime, qualcosa di simile lo si ritrova. Cerca infatti di riaffacciarsi, pur nel quadro (formale?) di un’economia di mercato e di una società libera, una concezione del mondo conflittuale con quel quadro, con tutte le relative contraddizioni, che sono poi alla base delle difficoltà economiche. L’egualitarismo anzitutto, che impone vere e proprie violazioni dei principi base di un ordinamento liberal-democratico, come le quote rosa, per cui molte donne per legge hanno dei posti riservati, anche se può capitare sia a danno di uomini più qualificati o come la forte redistribuzione forzosa del reddito, che ostacola molto significativamente l’accumulo di capitale a danno degli investimenti. Poi la sacralizzazione dello Stato, vera e propria pericolosa finzione, per mantenere la quale le aziende di proprietà pubblica operano nel mercato, ma senza seguirne le regole come tutte le altre e come anche loro dovrebbero.

Insomma, il primo problema italiano è quello di leggi che ubbidiscono a valori collettivistici in un Paese inserito in un sistema ad economia libera, una situazione che non può funzionare e che, oltre ad arrivare a configurare un’enormità di reati inesistenti (ma perseguibili) favorendo un’abnorme influenza della magistratura a danno della democrazia politica, penalizza sistematicamente l’economia impedendole di funzionare. E questo riguarda anche il costume. Prendiamo un caso che a torto si può considerare minore: la demonizzata raccomandazione. Quando si tratti di semplice raccomandazione e non di un reato mascherato, la raccomandazione è il più universalmente praticato metodo di relazioni sociali, perché è del tutto naturale, servendo non solo a chi la chiede, ma anche a chi la riceve, perché lo aiuta nella valutazione. Dal genitore che chiama il conoscente perché valuti il proprio figlio per una assunzione, dal prete o al sindacalista che “raccomandi” il fedele o il simpatizzante, fino alla presentazione ad alto livello di un consorzio industriale internazionale, ciò che possiamo indicare, con termine assolutamente generico, come raccomandazione, è una naturale parte delle relazioni sociali e non in Italia, ma in tutto il mondo, che anzi in moltissimi casi la istituzionalizza chiedendo formalmente nei concorsi delle lettere di presentazione e regolamentando le lobbies economiche.

Come si fa dunque a considerare reato o almeno pratica immorale, qualcosa diffuso in ogni dove e in qualunque classe sociale e praticato anche da coloro che la criticano con la autogiustificazione che così fanno gli altri. È un altro esempio di simil-reato ideologico. Quello che in realtà disturba è la persona indipendente, con la sua storia, le sue relazioni e le sue azioni individuali per risolvere i suoi problemi individuali, quello che si vorrebbe è un mondo di tutti esseri identici e indistinguibili, proni e governati dalla statistica, un alveare governato dallo Stato, dall’ape regina e dai suoi magistrati. E così leggi e leggine, regolamenti europei e nazionali, regionali e comunali, si uniscono ad aggravare imposte, tasse e balzelli giunti quasi a livelli distruttivi di ogni ricchezza passata, presente e futura, una ricchezza che viene contestata in sé, indipendentemente se creata con metodi legittimi o meno. Una ricchezza che spaventa, perché rende l’uomo indipendente. È l’effetto complessivo di qualcosa che viene da lontano, dalla pretesa di imporre una verità rivelata al di sopra di ogni critica, da una concezione del mondo che vede nell’individualismo la radice dell’aborrita Libertà. Se si crede che “alla base di ogni grande fortuna ci sia un crimine”, è chiaro che poco importa che vi siano leggi che intralcino l’economia, perché tanto il “denaro è sterco del Demonio”, come è chiaro che sempre meno imprenditori onesti saranno disposti a rischiare beni, immagine e talvolta libertà per intraprendere, mentre i disonesti, che non rischiano certo un onore che non hanno, continueranno a farlo. Proprio il contrario di quello che si diceva di voler ottenere coi super controlli e la legislazione forcaiola.

Restando così le cose, l’economia non potrà ripartire e la nostra democrazia sarà posta a rischio, perché il comunismo, uscito dalla porta, rientrerà dalla finestra. Ma a molti (in buona o malafede ) non importa, l’importante è il loro credo. Fiat iustitia et pereat mundus. Che resta una delle più orrende (e prima ancora ciniche) sentenze della storia umana.

Aggiornato il 27 aprile 2017 alle ore 16:37