Legittima difesa e tesi poco legittime

In questi giorni la recrudescenza di crimini commessi in danno di cittadini nelle loro stesse abitazioni e nei luoghi e dove esercitano le loro attività commerciali e, al contempo, di reazioni di taluni di questi ultimi messe in atto con la conseguenza della morte di qualcuno dei rapinatori e ladri, ha fatto tornare alla ribalta la questione dell’autodifesa, dei limiti della sua legittimità e della necessità e opportunità che se ne riconosca lecito il ricorso in limiti più ampi di quanto oggi avvenga.

Dico subito che se c’è un pericolo che una così delicata questione venga risolta nel peggiore dei modi, esso è rappresentato dal venir in essere di due “partiti”: quello del “se mi vieni a derubare io ti sparo e ti ammazzo”, ovverosia “meglio un brutto processo che un bel funerale”, e quello che vuole il rispetto assoluto della vita umana e dell’incolumità fisica delle persone, anche quando si tratta di rapinatori e ladri nell’esercizio delle loro attività criminali. Non è questione sulla quale dividersi in “partiti”, con la conseguente adozione di pregiudizi e con la pretesa di “tagliar corto”, quando si tratta di problemi tanto complessi in cui vengono in essere una quantità di problemi la cui soluzione è stata sempre d’estrema difficoltà.

Un dato di fatto è certo: nel sistema penale vigente in Italia la “legittima difesa” è consentita e considerata tale in limiti che sono tra i più restrittivi e rigorosi tra quelli di altri Paesi del nostro stesso livello di civiltà. Ed è pure indiscutibile che di questi limiti si discute da secoli, e da secoli essi sono soggetti ad assai diverse regolamentazioni. Apparirà strano, ad esempio, che nel Diritto romano la legittima difesa fosse esclusa quando l’aggredito avesse possibilità di un “commodus discessus” (di una facile fuga), mentre tale esclusione non era ritenuta necessaria dal Diritto della Chiesa, che non ne faceva dipendere la legittimità della difesa.

A suggerire soluzioni più o meno rigorose e restrittive, a parte le “passioni di partito”, sono state e sono circostanze obiettive. Se infatti da noi si è più rigorosi, a parte la tendenza tutta italiana per la quale di ogni sciagura ci deve essere sempre un responsabile (vivo) cui addebitarla, è certo che ciò è dovuto anche al fatto che, all’epoca cui risalgono i nostri codici, l’Italia era un Paese con uno dei più bassi tassi di omicidi e rapine. Quando erano imperversati in varie nostre province banditismo e assassinii, non c’era stato bisogno di riforme legislative per consentire e suggerire una certa facilità all’uso di buone doppiette e revolver a chi avesse di guardarsi la pelle e la borsa.

Certo, a sostegno dell’una o dell’altra tesi sono state e sono addotte argomentazioni spesso assurde e allarmanti. Così, pretendere che una persona, che si veda la sagoma di un ladro in camera da letto, compia un così rapido accertamento delle intenzioni omicide oltre che dell’effettiva pericolosità per il possesso di armi dell’intruso prima di sparargli e che possa indirizzare il colpo a parti non vitali, è una patente assurdità. E così è assurda la tendenza a definire sempre “un assassinio” il fatto di sparare ad un rapinatore senza prima “convincerlo” ad andarsene, tesi ben cara a una certa subcultura di sinistra, che è poi la stessa che vorrebbe che fosse considerato reato (e che, magari, ci riesce) il fatto del bottegaio che “paga il pizzo” alla mafia, soggiace cioè senza reagire, a una estorsione.

Non è certo auspicabile che alle rapine, ai furti e alle aggressioni si sostituisca il crepitare delle pistolettate e delle fucilate alla cui efficacia debbano rimettersi le vittime di tali delitti. Se la difesa dei singoli è compito della collettività, ciò che “dovrebbe essere” non deve e non può opporsi a chi deve fare i conti sulla impossibilità, al momento, della difesa pubblica di tutelare la sua vita e i suoi averi per impedirgli di salvarsi da sé, se ci riesce.

Occorre, quindi, modificare le norme attualmente vigenti in tema di legittima difesa (articolo 52 c.p.) in modo che renda meno problematica la condizione di tale scriminante. E qui viene fuori il solito problema. Con il livello culturale dei nostri legislatori e con il sistema invalso di trattare questioni di pubblico interesse con la stessa obiettività con la quale si sciorinano le discussioni dei tifosi sulle partite della loro squadra, non c’è molto da sperare in una ben bilanciata soluzione. C’è il precedente della modifica tentata con la legge del 15 febbraio 2006 n. 59, con la quale si affastellarono una quantità di parole l’una capace di vanificare la portata e le conseguenze dell’altra, che si risolse in una sostanziale conferma del testo, benché abbondantemente “prolungato”. C’è poi la questione del potere dei giudici che, come si è appropriato della funzione di istituire nuovi reati, si diletta talvolta a ignorare le modifiche apportate dal legislatore. Ma questo è un altro (cioè il solito) discorso.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:47