Quando i forcaioli  scoprono il garantismo

Antichi proverbi dicono quasi tutto quello che c’è da dire di una situazione, per più versi grottesca, ché grottesca è sempre quel po’ di giustizia che si ritrova nell’ingiustizia, in cui versa oggi “il” partito, il Pd, che finora poteva ben definirsi quello degli scampati-profittatori della mattanza giudiziaria che imperversa dai giorni di “Mani Pulite” in poi. “Chi di spada ferisce di spada perisce”, oppure quello più diffuso e popolaresco “chi la fa l’aspetti”.

C’è, in verità, qualcosa di poco generoso e cristiano in questi detti. L’abitudine all’altrui tracotanza, quella stessa alla sopportazione del sopruso, delle storture quotidiane, finisce per generare astio e diffusi sogni di vendetta e, quel che è peggio, la convinzione che in essi si racchiuda la palingenesi della società e del mondo. Ma, quali che siano i limiti della morale di quei detti, di quei proverbi, quale che sia la lontananza vera dalla generosità e dalle più alte ragioni che debbono tenerci immersi dal mal fare (e dal mal pensare), non v’è dubbio che sarebbe già gran cosa che essi suonassero come ammonimento quando si scatenano passioni e strategie persecutorie. La politica non è fatta di perfezione morale, ma si gioverebbe assai almeno di una morale purchessia, del buon senso e del senso della misura.

Di fronte a un Matteo Renzi che si scopre oggi garantista per via delle storie di papà Tiziano e anche del grossolano tormento che gli usa Michele Emiliano, di fronte al Partito Democratico, erede non so dire se legittimo o testamentario o apparente del Pci di Enrico Berlinguer, che proclamava la “questione morale” in concomitanza con Magistratura Democratica che teorizzava la “via giudiziaria al Socialismo”, non posso fare a meno di evocare un episodio chiave del collasso della Prima Repubblica, al contempo la prima, vera grande vittoria sul campo della tracotanza del “Partito dei Magistrati” sulla “politica”, sulle Istituzioni e, in sostanza, sulla giustizia. Parlo della mozione di sfiducia “personale”, l’unica che sia stata approvata dal nostro Parlamento, votata dal Senato il 19 ottobre del 1995 contro il ministro della Giustizia Filippo Mancuso, che aveva “osato” mandare gli ispettori a Milano dove era in pieno sviluppo “Mani Pulite” e dove di cose poco pulite al Palazzo di Giustizia ne accadevano di tutti i colori. L’uso sistematico della minaccia per ottenere “pentimenti” e “collaborazioni”, avvocati “addetti” all’ufficio (e non solo) di certi magistrati e l’allarmante e dilagante sistema: “Ti arresto, confessi, chiami altri in correità, ti scarcero, arresto gli altri”. Una disinvolta catena di montaggio resa ancora più grottesca e feroce dalla sistematica pubblicizzazione del metodo stesso e dal servile plauso della stampa “addetta ai lavori”.

La mozione di sfiducia nei confronti di un singolo membro del Governo non è prevista ed è, invece, implicitamente vietata dalla Costituzione. Che prevede la fiducia o la sfiducia al Governo nel suo complesso, in un rapporto dialettico fondamento del regime parlamentare, che viene meno quando l’uno o l’altro ramo del Parlamento si attribuisca, di fatto, il potere di determinare la stessa composizione del Governo. Questo sarebbe un “regime di assemblea”, che ricorda quello della Convenzione francese degli anni della Rivoluzione, quando i ministri erano “commissari dell’Assemblea”.

Filippo Mancuso era un magistrato, cioè un ex magistrato, di quelli che, allora, ancora si scandalizzavano a sentir parlare di “uso alternativo della giustizia”. E anche, giustamente, semplicemente di “uso”. Si “difese” strenuamente. Cioè difese la Costituzione, il Governo (che, in realtà, era il Governo Dini, non fece altrettanto nei suoi confronti). E, soprattutto, nel suo mirabile discorso, difese la Giustizia. Pronunciò una frase che avrebbe dovuto essere scolpita nell’Aula e che, purtroppo, cadde, si può dire nel vuoto. E che oggi non si può fare a meno di ricordare a Matteo Renzi, a Luca Lotti, agli eredi di quelli che votarono per cacciarlo dal ministero, che lo riconobbero “colpevole” di aver fatto il ministro della Giustizia (certo, in modo che Andrea Orlando non riesce nemmeno ad immaginare). “Non aspettate che l’ingiustizia bussi alle porte delle vostre case”. Un ammonimento solitario ai tremebondi candidati a soccombere alla “rivoluzione giudiziaria”, alla sopraffazione, alla demonizzazione del circuito mediatico-giudiziario. E ai profittatori, ai beneficiari di quella mattanza.

Non so però se valga proprio la pena di farlo ricordare a Renzi, ai suoi, agli altri. A tutti quelli che, magari, hanno aspettato che l’ingiustizia entrasse nelle case di tutti e, alla fine, anche nelle loro. È un dovere non dimenticare quelle parole. Da sole fanno di Mancuso l’ultimo ministro della Giustizia degno di questo nome.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45