Pdm: trionfo o principio della fine?

C’è una crisi nel nostro Paese tra le tante che coinvolgono e travolgono partiti, istituzioni, economia, cultura, di cui nessuno parla ed è pochissimo avvertita. E ciò non può stupire, perché è la crisi di qualcosa che, a sua volta, è ignorato, o si finge di ignorarlo, avendo timore, per più versi, di ammetterne e dichiararne l’esistenza: il Partito dei Magistrati. Da anni in solitudine ne vado predicando l’esistenza, sottolineandone l’assurdità ed il pericolo, trovando pochi e spesso alquanto distorti consensi.

Può darsi che mi sbagli. Non saprei, in verità, se compiacermene o dovermene dolere. Perché la crisi che mi sembra serpeggiare in quell’area del potere non si è al momento in condizione di capire se sia crisi di crescita e di trionfo o, invece, di metamorfosi, o magari il segno del declino e del principio della fine. Non c’è dubbio che il “Partito dei Magistrati” ha realizzato e raggiunto tutti gli obiettivi tattici (ché quelli strategici sono utopia e menzogna): la distribuzione del sistema dei partiti, la giurisdizionalizzazione dello Stato (in luogo dello Stato di diritto). Ora sembra aver messo le mani distruttive anche sul partito che ne fu l’alleato, il padrino di battesimo, il sostenitore: il Partito Democratico erede del Pci e della parte più stolta ed eversiva della Democrazia Cristiana.

Alcuni degli uomini di punta del Pdm sono, come si suol dire, entrati in politica, altri occupano istituzioni non elettive, ma di indubbia rilevanza politica. Ed è questo il fatto che autorizza l’interrogativo in ordine alla seconda ipotesi: è in atto una metamorfosi, quella della scalata diretta e manifesta del potere politico attraverso alcuni dei suoi esponenti, che faccia sì che l’appartenenza alla casta delle toghe sia condizione di fatto necessaria per accedere alle cariche che contano? La scesa in campo “a gamba tesa” di un personaggio come Michele Emiliano, l’arroganza con la quale se ne infischia delle stesse regole che nella magistratura sono imposte ai suoi membri e del procedimento disciplinare che per tale motivo è stato aperto nei suoi confronti impone (o imporrebbe) approfondimenti e considerazioni importanti, così come impone di riflettere sul numero crescente di magistrati andati ad occupare seggi in Parlamento, nelle Regioni, nei Comuni, nelle Authority, il tutto mentre continua e si estende la mattanza giudiziaria degli “altri”, di quelli che, forse, dovremo cominciare a chiamare i politici “laici”.

C’è, poi, la terza ipotesi. Paradossalmente, ma è un paradosso di cui la storia ci dà continui esempi, un sistema di potere, un partito, un’istituzione, proprio quando giunge all’acme della sua forza e grandezza, comincia a rivelare le crepe ed i primi sintomi del disfacimento. Questi sintomi per il Partito dei Magistrati ci sono, anche se nessuno osa ancora denunciarli e riconoscerli come tali. Il perdersi nel ridicolo (che di questo si tratta) del processo per la cosiddetta “Trattativa” di Palermo, che avrebbe dovuto, assieme alla beatificazione di Massimo Ciancimino, segnare e confermare la superiorità della giurisdizione sullo Stato, un ridicolo che, oramai, è l’unico esito certo di quell’incredibile vicenda, segna una svolta nella sorte del prestigio della fazione estremista, o se vogliamo della “scheggia impazzita” del Pdm. Alla magistratura nel suo complesso resterà il compito di raccogliere i cocci di questo storico infortunio.

Comincia a serpeggiare fra la gente un allarme crescente per clamorosi errori giudiziari, frutto, indiscutibilmente, anche della ostentata noncuranza del Partito dei Magistrati per la novella del codice di procedura che imporrebbe loro di non condannare se non quando la colpevolezza è provata “al di là di ogni ragionevole dubbio”.

E, poi, proprio la presenza crescente dei magistrati nei seggi del potere politico non sfugge più a nessuno e suscita quanto meno serie perplessità. Ma, soprattutto, lo “splendido isolamento politico”, realizzato con quella che potrebbe sembrare la fine della “immunità” del Pd e che il vociare della claque del Movimento Cinque Stelle non sostituisce né nasconde, sta dando qualche segno di essere avvertito.

Ma c’è un più grave sintomo di fragilità nello splendore del trionfo del Pdm. È rappresentato dal fatto che tutto, o quasi, il suo potere, le sue stesse basi teoriche e più ancora le manifestazioni pratiche sono favorite e determinate solo dalla stoltezza, dalla paura, dall’ignoranza (non solo dei 5 Stelle) degli altri partiti. Lo è la “giurisdizionalizzazione” dello Stato, ma, soprattutto tale è la congiura del silenzio di tutti sulla sua esistenza. Il giorno che vedremo scritto nelle prime pagine dei giornali il nome di questo “partito istituzione” sarà veramente il principio della sua fine. Forse anche rapida.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46