Porosità, sorveglianza: nuovo carcere di Nola

È stato pubblicato il bando per la realizzazione del nuovo carcere di Nola da milleduecento posti a custodia attenuata e non posso non rilevare la profonda discontinuità tra il bando e quanto pensato e stabilito dai tecnici del Tavolo n. 1 degli Stati generali dell’esecuzione penale “Spazio della pena: architettura e carcere”; un tavolo composto da numerose personalità coordinate dall’architetto Luca Zevi.

Dai lavori del Tavolo n. 1 è scaturito un modello di architettura penitenziaria che prevede l’adozione di concetti già ampiamente approfonditi nella bibliografia specializzata. Tali soluzioni si sarebbero potute adottare proprio per i progetti del carcere di Nola, un carcere che nel 2013 era previsto “non di massima sicurezza”, adatto ad ospitare novecento detenuti.

In realtà la prima macroscopica contraddizione si rileva nell’altissimo numero dei detenuti previsti nel bando. Ormai, per tipologie di carcere a custodia attenuata, è più che condivisa la scelta di contenere il numero dei reclusi a non più di quattro/cinquecento unità. Con la scelta di Nola che prevede ben milleduecento persone in regime di “trattamento avanzato” (terminologia di sapore vagamente ermetico che nella relazione non rimanda ad altre più chiare definizioni e finalità), si supera in modo abnorme la quota suggerita dagli studi più recenti.

Appare incomprensibile anche la collocazione geografica del carcere. Il sito è previsto vicinissimo all’interporto ed al “Vulcano buono” (noto e affollato centro commerciale) tra Cicciano e Nola, è in piena campagna tra strade vicinali e tratturi, decentrato rispetto agli insediamenti residenziali. Una tale marginalizzazione rispetto ai centri abitati, aggiunge altra contraddizione a fronte delle conclusioni del Tavolo n. 1 e di altri studi scientifici che indicano la necessità di un contatto più diretto tra carcere e città proprio per favorire il reinserimento nella società delle persone custodite.

Le stesse linee guida degli Stati generali ribadiscono la necessaria reintegrazione dei penitenziari con la realtà urbana, per favorire quanto più possibile la cosiddetta “porosità” (termine innovativo nel linguaggio giudiziario adottato nella relazione finale) tra ambiente penitenziario e habitat urbanizzato. La “spugnosa” nozione prescelta, che a prima vista sembrerebbe un tipico concetto da sociologismo architettonico tardo sessantottesco, se sostenuta da adeguate strutture di supporto culturali, ambientali e soprattutto progettuali, dovrebbe garantire un’effettiva interazione tra le diverse funzioni della città. Prime tra tutti quelle logistico-sanitarie, ma non solo. Interazioni, queste, che dal progetto così come descritto nell’inquadramento territoriale e organizzativo all’interno del complesso edilizio, non appaiono assolutamente risolte. Tantomeno indicate nella loro futura possibile soluzione.

Un altro grosso equivoco emerge dal confronto tra i risultati del Tavolo n. 1 e ciò che è previsto nel bando, in merito al cosiddetto “nuovo modello detentivo” che muoverebbe i suoi primi passi partendo dal cosiddetto “regime aperto”. Lo scopo di questa ulteriore invenzione linguistica nasce in effetti a seguito della censura fatta dalla Corte Edu all’Italia riguardante la sentenza Torreggiani, ampiamente commentata sul mio libro “Non solo carcere” (Mursia gennaio 2016): “La sentenza pronunciata dalla Corte di Strasburgo nel gennaio 2013 rappresenta per l’Italia, l’atto finale di una condanna senza attenuanti per il suo sistema penitenziario in spregio al paese che fu di Cesare Beccaria e di tanti altri illuminati giuristi. Tutto nasce dalla manifesta violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea, ovvero la proibizione di “trattamenti inumani e degradanti” nei confronti di coloro che sono detenuti in condizioni inaccettabili all’interno di celle di dimensioni insufficienti e con servizi non idonei. Nel suo giudizio generale la Corte veniva considerando lo spazio minimo vitale per un detenuto non soltanto in base ai metri quadrati a disposizione ma, molto correttamente, entrava nel merito anche delle più generali condizioni di vivibilità, le quali determinavano situazioni ambientali di inaccettabile degrado per i detenuti”.

Il nostro Paese, non privo di fantasia linguistica, non potendo costruire dall’oggi al domani nuove carceri, per rispondere in via immediata alle richieste della Corte ed evitare ulteriori sanzioni, ha coniato di sana pianta il modello del “regime aperto”. Questa nuova procedura di reclusione, per far fronte al conteggio dei metri quadrati mancanti, mette nel conteggio totale degli spazi a disposizione del detenuto “oltre” ai metri quadrati della cella (che nell’ordinamento penitenziario è definita “camera di pernottamento”), anche le superfici destinate ai passaggi, ai corridoi, alle camere di servizio e accessori vari (forse anche le scale e i ripostigli?). Cosicché lo schema detentivo oggi adottato nelle carceri italiane, per il “miglioramento” della qualità della vita, vede i reclusi “sfrattati” dalle celle, costretti a mescolarsi durante il giorno con diverse specificità di condanna, per il tempo che li separa da un pernottamento e l’altro, ma senza nulla aggiungere alle attività trattamentali previste (ma disponibili a percentuali di popolazione detenuta davvero esigue) e indispensabili per un vero recupero e reinserimento nella società delle persone ristrette. Tale espediente, tipico della maldestra fantasia del burocrate di turno, favorisce unicamente il diretto contatto di condannati minacciosi con altri detenuti che subiscono l’instaurarsi e/o il rafforzamento di una gerarchia criminale che è agli antipodi delle finalità stesse della detenzione. Sappiamo dalle cronache giudiziarie recenti, che non sono pochi i reclusi che si rifiutano di uscire “fuori” dalla cella, proprio per non imbattersi in quei criminali incalliti che di fatto hanno assunto il “controllo” delle sezioni detentive; un unico spazio che rimescola reclusi di ogni tipo violando le minime regole di protezione e salvaguardia nei confronti della dominanza del più forte nei confronti del più debole.

Lo schema progettuale, definito nel bando immutabile modello di riferimento anche per coloro che vinceranno la gara (...), non offre alcuna flessibilità di adattamenti funzionali. Propone schemi costruttivi rigidi nella prefabbricazione e, sotto il profilo distributivo, disegna schemi tradizionali ed obsoleti, non apportando alcun elemento innovativo. Corridoi ciechi si alternano a ossessive teorie di celle ove l’internità e l’esclusione sprofonda nell’interno del sistema generale, ben chiuso a sua volta all’interno di una serie di barriere edilizie mascherate da uno pseudo ambiente “urbano”.

La lettura di questo enorme e sproporzionato carcere sarà letto dall’esterno come una lunga e interminabile fila di un unico edificio con blocchi allineati tra loro per centinaia di metri senza soluzione di continuità. Una lunga teoria di muri forse di diverse altezze in mezzo a una campagna pianeggiante, con accanto il grosso centro commerciale del “Vulcano buono”.

L’ultima perplessità (e forse la più grave) scaturita dall’analisi di un progetto così rigido e lontano dalle soluzioni e indicazioni già ampiamente conosciute per detenzioni a custodia attenuata, è amplificata dalle agenzie di stampa circolate nei mesi scorsi che indicavano proprio nel nuovo carcere di Nola il necessario sostituto del carcere napoletano di Poggioreale, ormai ricompreso tra le carceri “storiche” da dismettere; facendo presagire che il futuro carcere di Nola sarà solo parzialmente utilizzato per la custodia attenuata. È infatti prassi consolidata da parte dell’amministrazione penitenziaria che all’interno di spazi detentivi inizialmente previsti per uno specifico tipo di circuito penitenziario, si siano poi innestati anche altre tipologie di detenzione, anche difficilmente conciliabili tra loro. In uno scenario simile, allora proprio la “rigidità” delle soluzioni architettoniche previste, troverebbero un senso.

Altrimenti, se questo di Nola doveva essere il primo modello di carcere scaturito dalla lunga riflessione di tanti esperti, siamo, come per il resto dell’amministrazione della giustizia, molto lontani da poter essere fieri del campione proposto.

(*) Presidente Commissione Lidu onlus “Diritti della persona privata della libertà”

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:44