Non tutti devono  chiedere perdono

Caro Roberto Saviano, scrivi, riferendoti al caso di Dj Fabo, “perdonaci... per non essere riusciti a occupare, con il tuo appello, ogni spazio disponibile. Perdonaci per non aver ascoltato la tua legittima richiesta di una morte dignitosa. Perdonaci per essere andati oltre. Perdonaci per aver vissuto camminando, parlando, guardando senza pensare che tu questo non potevi più farlo da molto tempo, dall'incidente che ti ha reso tetraplegico e cieco, ma lucido nel voler scegliere la morte a una vita ‘di dolore, di dolore, di dolore’. Perdonaci per non essere riusciti a farti lasciare questa vita in una condizione per te umana, non dovendo affrontare un viaggio faticoso e assurdo per ottenere in Svizzera quello che avresti avuto diritto ad avere a casa tua”.

Avrei voluto risponderti d’impeto; non l’ho fatto perché, si dice, la fretta consiglia male. Così uno aspetta, ci pensa, riflette. Aspetti, pensi, rifletti, ma l’originario pensiero-reazione non muta. Dunque: no, non è vero che tutti devono chiedere perdono. D’accordo, è un espediente retorico, ma non è ugualmente accettabile; come non è accettabile il corrispondente “siamo tutti colpevoli”. Non è vero che si sia tutti colpevoli (tutti colpevoli significa nessun colpevole); non tutti devono chiedere perdono. Molti, tanti, quasi tutti, forse devono farlo. Tutti, no. Tracciare una linea di discriminazione si deve.

Faccio parte della nobile (non ho paura di dirlo, che tale è), pur se apparentemente sparuta organizzazione politica chiamata Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale che da sempre conduce battaglie di libertà e di liberazione: per tutti, contro nessuno.

Non potevi esserci, sei del 1979. Ma nel 1974, a piazza Navona, si festeggia la vittoria del “No” al referendum promosso da chi vuole abrogare la legge sul divorzio. Una legge conquistata da Marco Pannella, Loris Fortuna, Mauro Mellini, dopo anni e anni di lotte; poi, con grave ritardo, sono venuti tutti gli altri. La stessa cosa è avvenuta per ottenere una legge, comunque imperfetta, sull’aborto che almeno non punisce penalmente le donne; e poi tutto il catalogo delle grandi leggi di civiltà: pillola e antifecondativi, obiezione di coscienza, voto ai diciottenni, nuovo diritto di famiglia, abolizione dell’infame regolamento manicomiale... fino ai giorni nostri: la libertà di ricerca scientifica di Luca Coscioni, radicale; il diritto a una vita degna e a una morte senza dolore, di Luca Coscioni e Piergiorgio Welby, radicali; la lotta per una detenzione civile e la più generale battaglia per una giustizia giusta, per il diritto, di Pannella ed Enzo Tortora, di Leonardo Sciascia fino a oggi: con Rita Bernardini che è a un mese di sciopero della fame, e nessuno si preoccupa di conoscere e far sapere perché lo fa. Tutti radicali. La battaglia e l’impegno per il diritto umano e civile alla conoscenza, diritto da incardinare in Italia e ovunque, l’ultimo dei chiodi fissi di Pannella. L’elenco potrebbe continuare a lungo, e non basterebbe una giornata per esaurirlo.

Perdono? No, non tutti devono chiedere perdono. Perdono lo deve chiedere chi non fa nulla perché queste iniziative politiche siano conosciute, ci sia confronto, dibattito, riflessione. Perdono lo deve chiedere chi, a conoscenza di queste cose, sapendo che chi le conduce e le porta avanti, rinuncia a fare la “piccola”, “semplice”, “minima” cosa che è urgente, necessaria, doverosa: sostenere con la propria iscrizione chi queste battaglie, queste iniziative, le porta avanti e le incarna. Se è vero che i radicali sono, come si dice, una polizza assicurativa, ebbene: per essere “assicurati” e beneficiare del “premio”, bisogna pur pagarsela, l’“assicurazione”.

Ecco: perdono lo devono chiedere quanti non pagano la “tassa” dell’iscrizione; fare elogio e riconoscere meriti a posteriori rischia di essere l’elogio al “caro estinto”. Da rozzo quale sono gradisco le “opere di bene” oggi, ai “fiori” di domani. Perdono lo deve chiedere chi non si iscrive al Partito Radicale Nonviolento Transnazionale Transpartito; e non iscrivendosi nega il necessario sostegno e appoggio alle sue battaglie e le sue iniziative. Nel Regno Unito s’usa dire che la solidarietà non vale se non è accompagnata almeno da un penny.

Chiedere perdono non vale, se non è seguito dall’unico gesto che ha valore: il concreto sostegno che deriva da un’iscrizione, il poter dire, un giorno: “Io c’ero; io non ho assistito inerte, indifferente; io ho reagito, non mi sono rassegnato”. Caro Roberto Saviano, oggi più di sempre: o si comprende che è urgente, necessario, “civile” dire: “Sono radicale del Partito Radicale Nonviolento Transpartito Transnazionale, oppure, con franchezza: per quanto ottime possano essere le intenzioni e i propositi, non ha alcun valore il chiedere perdono.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45