Tra Marx e Zuckerberg una scelta obbligata

mercoledì 22 febbraio 2017


Qua e là, tra rimpianto e provocazione, si torna a parlare di Karl Marx. C’è chi vorrebbe riattualizzarlo quale icona alternativa rispetto al presente, diciamo rispetto a quel liberismo “selvaggio” (o mercatismo “globale”) che a molti appare come riedizione del liberismo figlio (ma anche padre) della borghesia di fine Ottocento. C’è comunque una certa nostalgia della figura dell’operaio, centrale nel pensiero del filosofo di Treviri. La storia del Novecento è strettamente intessuta di temi sociali, quelli relativi, in larghissima parte, allo scontro tra capitale e lavoro, padrone delle ferriere e operaio, borghesia e “classe” operaia, sfruttatore e sfruttato. Questo scontro si intrecciò variamente con il conflitto tra Nazioni. Lo storico George Mosse ha messo a fuoco un momento capitale dell’incontro: la “nazionalizzazione delle masse” consentì alle dittature europee di soffocare o deviare lo scontro di classe, dirottato sul terreno a loro più congeniale, quello di un patriottismo di bassa lega ma molto efficace nello scaldare e galvanizzare i sentimenti, buoni o cattivi che fossero, delle folle. Lo scontro di classe permea insomma un secolo e forse più di storia; è ovvio che molti ritengano che la formula, se appena appena rispolverata e aggiornata, potrebbe essere utile a capire, e soprattutto a gestire, i problemi dell’attualità.

Come non vedere, per esempio, che la scissione del Partito Democratico è fondata sulla percezione, divaricata tra maggioranza renziana e sinistre interne, del ruolo che deve avere la figura dell’operaio, o comunque il valore del “lavoro”, nell’immaginario di un partito che voglia rivendicare il suo essere di “sinistra”? Eppure, non dovrebbe essere difficile, soprattutto per un politico, percepire la profonda differenza che intercorre tra l’oggi e quel rimpianto otto-novecentesco.

Lungo il secolo scorso lo scontro era tra il padrone - il capitalista - e il lavoratore, oggi la figura del lavoratore è scomparsa o quasi dal palcoscenico, semplicemente perché il lavoro non c’è, sta - almeno nelle forme che conosciamo - scomparendo. E il dramma è che non si sa come sostituirlo, con quale “ruolo” o soggetto sociale. L’individuo può essere visto come consumatore, non come lavoratore; le sue rivendicazioni non potranno più essere quelle di ieri: l’aumento salariale, la contrattazione (nazionale o aziendale?), la gestione dei turni e degli orari, la sicurezza, ecc.. Ma nessuno sa dire quali possano essere oggi le forme del rapporto tra individuo e società. È per questo che trovano seguito gli slogan di un Grillo: perché sono contraddittori, sono volti a soddisfare esigenze, richieste, desideri incoerenti e volubili. L’interlocutore non è il cittadino, non è l’operaio, non è nemmeno l’uomo-massa delle periferie industriali e fordiste. È un anonimo agglomerato di sub-individui, “fluidi” anche essi come è “fluida” la società in cui vivono. Gli slogan di Beppe Grillo non sono progettuali, non indicano uno o più obiettivi ben visibili da raggiungere, solo additano minacciosamente un avversario immaginario da abbattere e distruggere: la Casta, le istituzioni, forse lo Stato. Più o meno la stessa indeterminatezza la cogliamo negli slogan di molti altri agitatori pubblici (non osiamo chiamarli “politici”, si indignerebbero) oggi in auge, da Donald Trump a Theresa May, ecc.. Al massimo della loro coerenza, non hanno altro da proporre ai loro seguaci se non la promessa, il richiamo a un passato dipinto con le tinte rosee della nostalgia e del rimpianto.

La sociologia, forse l’antropologia, ci raffigurano questa società, questo mondo. Sul quale discettano, e forse speculano, catastrofisti d’ogni genere, invocando palingenesi psicologiche, taumaturgiche o anche religiose. Quel che manca purtroppo, invece, è una leadership, una élite politica capace di prendere il timone della barca pericolante per farle rimettere la prora sull’onda. Nella crisi mondiale delle élites, manca appunto una élite adeguata. Brutto affare, perché le élites non si improvvisano, devono maturare nell’esperienza della lotta, di una lunga lotta selezionatrice. Senza ritorni inietro. La tecnologia può essere feroce e devastante, ma è irreversibile. Quando apparvero le filatrici meccaniche, le “Spinning Jenny”, si ebbe una rivoluzione totale: prima, le donne lavoravano in casa le matasse di lana che il commerciante portava in giro, casa per casa, per poi ripassare a raccogliere i filati; dopo l’invenzione di quella macchina, le donne dovevano uscire di casa loro, spesso in ore antelucane, per raggiungere le filanderie. E, più o meno nella stessa epoca, gli uomini cominciarono a scendere nelle minire di carbone o ad addensarsi negli opifici. Nasceva la classe operaia.

Oggi, il web dei mille “social” e di Google sta plasmando, irreversibilmente, il mondo. Ma forse l’élite di questo nuovo mondo, di questa società o umanità, si sta raccogliendo e preparando a scendere in campo, magari sulla scia di Mark Zuckerberg, il guru di Facebook. Su “Il Foglio” del 21 febbraio scorso, il direttore Claudio Cerasa ha riportato un vecchio, efficace ammonimento di Francesco Giavazzi e Alberto Alesina: “Il liberismo è di sinistra”. Altro che rimpiangere il pensatore di Treviri...


di Angiolo Bandinelli