Matteo Renzi e i doni della morte

L’Assemblea nazionale del Partito Democratico riunita domenica scorsa, nelle intenzioni della minoranza interna, avrebbe dovuto avviare la stagione del logoramento del Segretario. Gli improbabili rappresentanti della “ditta” di bersaniana memoria hanno pensato che spingendo la macchina della scissione fino al ciglio del burrone l’avrebbero spuntata sul James Dean di Rignano sull’Arno - la metafora è di Gianni Cuperlo - a sua volta costretto a sterzare prima di saltare nel vuoto. Invece, Matteo Renzi ha tenuto duro e, alla fine, a saltare con tutta l’auto sono stati loro. Si sono fatti male da soli senza bisogno che fosse il “rottamatore” ad asfaltarli. Ora per quelli della minoranza la strada è in salita: devono fare armi e bagagli e andare a piantare altrove le tende. Se la sono cercata. Pensavano di suonare l’incantatore Renzi e invece sono stati suonati. Contenti loro!

Ai protagonisti di questa surreale tragicommedia, di là dalle pretenziose sparate propagandistiche, adesso tocca fare i conti con la cruda realtà: a sinistra del Partito Democratico non c’è vita. Almeno non ve n’è a sufficienza per consentire la sopravvivenza politica a una classe dirigente priva di un adeguato seguito tra gli iscritti e i simpatizzanti del partito. È questione di antropologia più che di politica. Se c’è un connotato che ha da sempre contraddistinto il più grande movimento della sinistra è la fidelizzazione dei suoi appartenenti, non inclini a scelte avventuristiche. La storia lo attesta. Non vi fu alcun terremoto quando il 24 novembre 1969, Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda, radiati dal Partito Comunista Italiano per la loro condanna intransigente dell’Unione Sovietica ritenuta responsabile della repressione della “Primavera” di Praga, diedero vita al gruppo politico de “Il Manifesto”. Quando nel 1991, dopo la “svolta della Bolognina”, la frazione contraria alla trasformazione del Pci nel Partito della Sinistra decise di dare vita a “Rifondazione Comunista”, non portò via granché dalla base e dai quadri intermedi di quello che era stato il più grande partito comunista dell’Occidente dal dopoguerra. Oggi tocca a Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani rimettere in piedi una “ditta” che però deve scontare il doppio handicap di una classe dirigente carente e di una proposta politica debole. La strada dall’utopia della via socialista nelle democrazie dal capitalismo maturo dell’Occidente è già stata sconfitta, come pensare di riproporla a meno di non smentirne il presupposto fondato sulla dinamica progressiva del divenire della Storia? Il mito ancestrale dell’eterno ritorno fa più Nietzsche che Karl Marx. Piuttosto, la soluzione delineata dagli scissionisti ha il gusto amaro di una nostalgia passatista. Al contrario, pur con tutti gli errori compiuti, Matteo Renzi scommette che la sua idea di una sinistra in sintonia con i tempi della globalizzazione possa avere ancora spazio, nonostante le bocciature rimediate. Renzi confida sul fatto che la soppressione di ogni elemento d’ambiguità ideologica dalla “visione del mondo” del suo Partito Democratico possa intercettare il consenso di quel blocco d’opinione pubblica altrimenti ostile a soluzioni di stampo vetero-socialista.

Ma c’è un pericolo alle porte che rischia di rovinare la festa al vincitore. L’approvazione di una legge che sostanzialmente risusciti il meccanismo proporzionale pone il Pd renziano, geneticamente a vocazione maggioritaria, nell’incertezza di conquistare la maggioranza relativa dei consensi e con essa il diritto a dare le carte nella costruzione di futuri governi di coalizione. Se Renzi vuole neutralizzare il veleno contenuto nel falso dono della scissione servitagli su un piatto d’argento dai passatisti deve puntare a qualcosa di più di un proporzionale secco. Probabilmente è il “Mattarellum” l’antidoto che gli salverà la vita.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:46