Sicumera dell’accusa   di “Mafia Capitale”

L’archiviazione della posizione di 113 indagati, su 116, di “Mafia Capitale”, in riferimento all’imputazione di mafiosità, fa tirare un sospiro di sollievo agli indagati messi sulla graticola da oltre due anni, mentre resterà indelebile il fango, buttato a piene mani, sulla nostra Capitale. C’è chi ha commentato la decisione del Gip rinverdendo la famosa frase del mugnaio Arnold di Potsdam che recitava all’incirca: “Ci sarà pure un giudice a Berlino”. Ma non tutti lo hanno fatto con lo stesso spirito, perché alcuni, ricorrendo a questa frase, lo hanno fatto per dimostrare che i magistrati riescono, comunque, a correggere gli sbagli da soli.

Ma questo, chiaramente, non basta dinanzi alla leggerezza con cui si sbattono i mostri in prima pagina, si ammanettano i presunti colpevoli che a volte arrivano anche al suicidio, e si distruggono pezzi importanti della nostra economia. Già la vicenda del mugnaio tedesco introduce uno sbocco per l’Italia: la giustizia non fu riabilitata dai giudici in prima istanza o in appello e, pure a Berlino, il livello superiore della magistratura aveva decretato la colpevolezza di Arnold. A ribaltare la situazione ci ha pensato Federico il Grande che esaminò personalmente gli atti del processo e diede ragione al mugnaio restituendogli il mulino sequestrato con le decisioni giudiziarie. Ma vi è di più: spedì i giudici, ingiusti o corrotti, al carcere e li condannò a risarcire i danni provocati.

Ora è chiaro che nessuno di noi vuole il carcere per i magistrati italiani (salvo non ci sia dolo nei loro atti) ma il loro operato, sia negativo che positivo deve influire sul loro curriculum e le loro eventuali promozioni. Così come il rispetto della Costituzione, difesa dagli italiani il 4 dicembre scorso (con quel voto che pochissimi si aspettavano), deve stare alla base della loro attività. Sentire a “Porta a Porta” un importante magistrato italiano, presidente tra l’altro dell’Anm, sostenere, “coram populo”, la tesi che i cittadini si dividono tra “colpevoli e quelli di cui la colpevolezza non si è potuta accertare”, ha fatto sobbalzare ogni coscienza democratica del nostro Paese. Tesi che potrebbe essere alla base della richiesta dell’allungamento della prescrizione, magari senza fine.

Una tesi che ha sollevato le ire di moltissimi avvocati, anche perché l’autore, per la carica che ricopre, rappresenta il 90 per cento dell’intera popolazione giudiziaria. Mettere in discussione la presunzione d’innocenza (uno dei capisaldi del progresso giuridico italiano) e la nostra stessa Costituzione è troppo anche per un famoso magistrato che non può pretendere libertà d’espressione su questi argomenti che fanno, di sicuro, imbestialire anche il pacato e tranquillo Sergio Mattarella che presiede il Consiglio Superiore della Magistratura (Csm).

La vicenda di Roma dovrebbe far aprire, finalmente, gli occhi di quanti, per prudenza, pavidità o quieto vivere, continuano a tenerli chiusi e a rinviare continuamente qualsiasi discorso sulla riforma della giustizia, mentre ci si dimostra sensibili ad allungare i tempi della graticola per gli indagati che dopo anni ed anni di indagine, con una accusa forzata, non si è in grado di mantenere in carcere.

Anche ciò che sta avvenendo a Reggio Calabria, con l’uso spregiudicato della legislazione emergenziale antimafia, già avvenuto con altri Procuratori della Repubblica, prima di Cafiero de Raho, non può essere ulteriormente ignorato perché a soffrirne non sono solo gli arrestati (spacciati per “Ghota mafioso segreto”, tra i quali avvocati, professionisti e un Senatore della Repubblica, che il Senato ha voluto consegnare al pubblico ludibrio), ma anche l’intero sistema Paese che vede nella gestione della giustizia, come “Roma Capitale”, un pericolo senza fine per tutti i cittadini, anche innocenti o presunti colpevoli.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:43