“Al voto, al voto”, ma per che cosa?

Basta accendere la tivù o la radio, in qualunque momento della giornata, e si viene assaliti dal nuovo mantra che imperversa inesorabilmente in tutti i canali televisivi e in tutte le stazioni radio: “Al voto, al voto subito, con qualunque legge, basta votare”. Sembra di rivivere i mesi folli del referendum costituzionale, quando imperversava il famoso mantra: “Per ridurre il numero dei parlamentari, per ridurre le spese per il funzionamento delle istituzioni, per cancellare il Senato vai a votare”. Ma quel referendum conteneva un premio a chi avesse vinto, col “Sì” o col “No”. Il mantra odierno non contiene alcun premio. Anzi, ne contiene uno negativo per il Paese.

Col referendum del 4 dicembre scorso, infatti, se il “Sì” avesse vinto sarebbe stato consegnato il Paese ad un aspirante dittatorello, mentre col “No” (così com’è stato) si liberava il Paese (così com’è stato) dal pericolo autoritario. La vittoria ha premiato uno dei due fronti. Ma il mantra odierno “al voto, al voto”, chi può far vincere? Se si vuole essere seri bisogna essere coscienti che, se si dovesse andare a votare con le attuali leggi elettorali, nessun partito o movimento sarebbe in condizione di raggiungere e superare la soglia del 40 per cento che farebbe scattare il “premio”, alla Camera, di ben 340 seggi assegnati che sarebbero sufficienti a garantire una consistente maggioranza senza bisogno di immediate campagne d’acquisto.

La soglia del 40 per cento la si potrebbe raggiungere solo se si creano le coalizioni che hanno però il difetto, come l’esperienza insegna, di sbriciolarsi all’indomani della consultazione avviando l’ignobile pratica del trasformismo e condannando la governabilità, se non a sicura morte, ad una vita di precarietà a sicuro danno per l’intero Paese. E si ritornerebbe, quindi, punto e a capo con sperpero di denaro pubblico e perdita di tempo sottratto al governo del Paese. E con la consolazione per alcuni che, se riusciranno ad incrementare le loro percentuali, potranno baldanzosamente brindare alla propria vittoria. Magra consolazione, ma non certamente a favore dell’Italia.

E allora “che fare?”, si sarebbe chiesto tale Vladimir Ilic. Ma alla domanda leninista non è difficile rispondere se si comprende che la soluzione non sta nei premi di maggioranza, elargiti con eccessiva prodigalità, o riducendoli a scarso apporto di stabilità, che non troncherebbero, ambedue, le pratiche della transumanza o trasformismo che dir si voglia.

La soluzione, infatti, sta nell’introdurre nelle nostre leggi elettorali quanto è già previsto in altri Paesi, con in testa la Germania, e cioè la cosiddetta “sfiducia costruttiva” che obbliga coloro che vogliono “mandare a casa” un Esecutivo in carica, cioè sfiduciare un Governo, a presentare, prima di procedere al voto di sfiducia, l’Esecutivo che deve sostituirlo con relativo elenco dei gruppi parlamentari che lo sosterranno, altrimenti la mozione di sfiducia non può neanche essere votata.

È proprio l’uovo di Colombo che chiuderebbe definitivamente sia le polemiche sugli Esecutivi “annuali” della Prima Repubblica, ma anche lo schifo che si è visto nella Seconda con il balletto vergognoso delle porte girevoli con onorevoli (ma molto poco onorevoli) che entravano ed uscivano dalle suddette porte. Col suddetto sistema non c’è alcun bisogno di premi di maggioranza abnormi, ma bastano piccole correzioni premiali da assegnare alle coalizioni che risultano vincenti col sistema proporzionale. Sarà poi compito del nuovo Parlamento l’inserimento in Costituzione della suddetta norma.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:43