“Alla luce del mito” di Marcello Veneziani

Se si pensa ad un mito si è convinti di riflettere su qualcosa d’antico, comunque di anteriore al “disincanto del mondo”. Marcello Veneziani, nel suo libro “Alla luce del mito” (Marsilio editori, Venezia 2017, pp. 176, euro 16,50), ci mostra che non è così, né lo può essere. I miti non sono limitati all’età “giovanile” delle comunità umane, ma permangono, o più spesso si rinnovano, o si trasformano, anche nelle epoche mature o di decadenza. Nella nostra Era, improntata a razionalità (che spesso non è tale) e dalla tecnica, il mito si ripropone nello sport, nello spettacolo, nel cinema e nella pubblicità. In politica il mito, che spesso ha cambiato nome in ideologia, è riproposto per la sua forza trascinante le masse.

Il mito della classe o quello della razza sono stati i principali del secolo passato. Georges Sorel, Alfred Rosenberg e Adriano Tilgher lo hanno capito: “Sorel col suo mito dello sciopero generale e della violenza, li riassume tutti. Il razionalismo s’imbizzarrisce e s’irrazionalizza; incrociando il mito, anche il materialismo si spiritualizza e il determinismo storico s’involontarizza. Sulle ceneri del materialismo è in agguato un vitalismo polivalente, dagli esiti imprevedibili”, scrive Veneziani; e ricorda che, secondo Tilgher, “il mito è uno slancio ideale che muove le folle, guidate più dall’immaginazione che dalla ragione. Lo stesso Tilgher avverte però che i miti non nascono dalla pura fantasia o da un ritorno barbarico alla mentalità primitiva; al contrario presuppongono secoli di elaborazione filosofica e critica, fino a Kant, Schopenhauer e Bergson”.

Anche i giuristi come Santi Romano non disdegnavano di esaminare (criticamente) i miti del (e nel) diritto. Il giurista siciliano rilevava che: “Il mito è stato particolarmente, anzi quasi esclusivamente, definito e studiato in relazione alle credenze religiose, che certo ne offrono gli esempi più tipici e caratteristici. Esso però si riscontra anche in campi diversi e, fra gli altri, in modo molto interessante, in quello del diritto”. Anche la modernità tardiva e la post-modernità hanno generato miti, o meglio tentativi di mitizzazione, non riusciti o riusciti solo in parte: il mito della pace, la tecnocrazia e il relativismo sono i più ricorrenti tra questi, anche se poco mobilitanti (chi sarebbe disponibile a morire per un governo di tecnici?). La scarsa - o nulla - capacità di coinvolgere le masse è stata surrogata dal sostegno dei media: per cui abbiamo dei miti di carta patinata, analoghi, nella tecnica generatrice, a quelli costruiti su (e per) personaggi dello spettacolo o dello sport, o per marchi industriali.

Ma il mito non è solo illusione; il mito - come scrive l’autore - è racconto, e quel racconto è spesso, scrive Veneziani, “l’immagine riflessa della verità”. In effetti vi sono miti che corrispondono a verità, e la esprimono in forma metaforica e intuitiva, ed altri che sono frutto di pura fantasia. I primi sono destinati a realizzarsi, i secondi no, o a realizzarsi in modo diverso. Scriveva Sorel: “C’è eterogenesi tra fini realizzati e fini dati; la più piccola esperienza ci rivela questa legge, che Spencer ha trasferita nel mondo materiale per dedurne la sua teoria della moltiplicazione degli effetti”; quindi i miti che non si sono tradotti in realtà, si concretizzano talvolta in realtà diverse dalle intenzioni. Spesso hanno conseguenze utili, altre volte sono inutili e talvolta dannosi. Il mito - scrive l’autore - “è l’infanzia che resta da adulti, ha il cuore puerile ma coglie l’intelligenza del mondo”. Il mito è simbolo, trasfigurazione e metafora; un tempo c’erano i miti di fondazione, spesso espressi in forma poetica come l’“Eneide”, che addirittura è un prequel della fondazione di Roma, o la “Chanson de Roland”: perfino l’Europa, diventata così ragionieristica nasce da un mito.

Adesso siamo in un’epoca che non crede nel mito, ma è “gremita di miti e fabbriche di mitologia. Non riusciamo a sognare e non riusciamo a vivere la realtà”. Sostiene Veneziani: “Funzionano a pieno regime le fabbriche dei sogni, dalla fiction all’astrologia: Theodor Adorno in ‘Stelle su misura’ analizzò questo trasloco nella veglia delle allucinazioni oniriche e delle psicosi notturne. L’inversione tra il giorno e la notte, tra il sogno e la veglia, trovò nel surrealismo e poi nel ‘68 una formula di successo: l’immaginazione al potere. Il risultato fu rovesciare l’uomo, farlo camminare con la testa e pensare con i piedi, cioè con la praxis, ribaltando così il rapporto col cielo e la terra”. I malesseri di oggi hanno la stessa matrice “la pretesa di calcare il cielo con i piedi e di camminare con la testa. Così i nostri dei e i nostri miti sono pedestri, all’altezza delle nostre suole, o al più dell’inguine, e la nostra vita terrena si perde nel cervello, in quella tirannia dell’immaginazione sulla realtà, del cervello sulla vita concreta”. Ad avviso dell’autore: “La via d’uscita, facile a dirsi e ardua a realizzarsi, è restituire i sogni alla notte e la veglia al giorno, ridare il cielo agli dei e la terra agli uomini, ripristinando il duplice bisogno di miti e di realtà che ci rende uomini; collocati però nel loro giusto topos e kairos, mai scambiandoli di posto e di momento”.

Da questo gradevole libro deriva che il mito non è espressione di un periodo passato come novellano molti cosiddetti progressisti, non è irrazionalità ma, semmai, frutto di un sapere intuitivo e “non calcolabile” (o mal calcolabile); non conduce a disastri, anzi spesso è “fondante” di comunità durevoli e destinate a grandezza (come Roma). Non è neppure eliminabile, dato che è riproposto oggigiorno perfino per figure e funzioni effimere. Scriveva Carl Schmitt delle concezioni di Sorel: “Nella forza atta a suscitare il mito consiste il criterio per stabilire se un popolo o un altro gruppo sociale ha una missione storica ed è giunto il suo momento storico. Dal profondo del vero istinto vitale, non da un ragionamento o da una valutazione di opportunità, sgorgano il grande entusiasmo, la grande decisione morale e il grande mito... Solo così un popolo o una classe diventa il motore della storia universale. Dove ciò manca non si può più mantenere nessun potere sociale e politico, e nessun apparato meccanico può formare un argine, se si scatena un nuovo torrente di vita storica”.

Quindi di miti si può vivere, ma anche morire; e di miti “minori” e individualistici come quelli della società contemporanea si può vegetare. Ossia possono morire - per assenza di miti comunitari e fondanti - le società umane. E su questo Veneziani con il consueto stile piacevole ci fa riflettere.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:45