I limiti di Trump

Un dizionario enciclopedico molto popolare nell’Italia del tempo, “Il Novissimo Melzi” nell’edizione del 1940, alla parte “Scientifica”, nella voce “Stati Uniti d’America”, recita alla sottovoce: “Governo: Repubblica Confederativa, con Presidente nominato per 4 anni con suffragio indiretto, e un Congresso composto di due Assemblee: il Senato e la Camera dei Rappresentanti. Il Presidente è dittatore”.

È una descrizione, soprattutto per quanto concerne la funzione dittatoriale del Presidente, chiaramente ad uso del regime italiano dell’epoca, ma che, indubbiamente, potrebbe piacere al 45esimo Presidente degli Usa, Donald Trump, a cui starebbe addosso come un abito su misura. Però è un’affermazione sbagliata. Innanzitutto gli Stati Uniti d’America non sono una Repubblica “Confederativa” ma “Federale”. Infatti una confederazione è una lega tra Stati che restano sovrani, ma con organi comuni per raggiungere gli specifici scopi della loro unione; mentre in una federazione gli Stati federati cedono la loro sovranità alle istituzioni federali, e non c’è dubbio che gli Stati Uniti abbiano un governo, un legislativo ed una giurisdizione nazionali unitarie, pur nell’ampia autonomia conservata, in alcune materie, dai singoli Stati dell’Unione. E poi il Presidente non è una sorta di dittatore “alla romana”, cioè a termine, per quattro anni. La dittatura, infatti, consiste nell’assunzione di pieni poteri, cioè nella momentanea unificazione delle facoltà legislative esecutive e giurisdizionali in capo ad un unico soggetto.

Il Presidente degli Stati Uniti ha in pieno ogni potere esecutivo, cioè di governo, ma non possiede potere legislativo e la giurisdizione è indipendente, anche se egli deve nominare i giudici della Corte Suprema. Costoro, però, lo sono a vita, cosicché nessun presidente può avere d’innanzi una Corte Suprema in maggioranza di sua nomina. Trump può avere una mentalità autoritaria fin che si vuole, ma ad un Presidente degli Stati Uniti è dato deliberare ordini esecutivi solo in casi di estrema urgenza e non in materie di competenza del congresso, come l’immigrazione. Trump l’ha fatto, coll’ordine esecutivo che ha bloccato l’ingresso negli Stati Uniti ai sudditi di alcuni Stati a maggioranza musulmana, ma è bastato un ricorso ed il giudice federale di Seattle, James Robart, ha annullato il provvedimento presidenziale; l’amministrazione è ricorsa in appello e la Corte d’Appello dello Stato di Washington ha confermato la sentenza di Robart. A Trump non è rimasto che tuonare: “Se qualche immigrato musulmano commetterà qualche delitto, la colpa non sarà mia, ma dei giudici”. Forse si andrà alla Corte Federale. In poche parole, le Costituzioni non sfuggono alla regola di tutte le norme giuridiche: sono di presidio ai principî che sanciscono, e la loro efficacia si misura nei casi di violazioni.

La Costituzione degli Stati Uniti d’America è del 15 settembre 1787 e ne ha viste di tutti i colori, compresa una Guerra di secessione. Per questo Trump non mi preoccupa oltre misura: quello che farà di buono sarà un bene; quanto non si condivide, se legittimamente deliberato, va sì discusso, ma accettato nello spirito democratico; e se la farà “fuori dal vasino”, troverà sempre un James Robart fuori dalla porta della Casa Bianca.

Aggiornato il 07 aprile 2017 alle ore 18:06