L’Unità (di crisi)

L’Unità è in crisi. L’ennesima. E questa volta non ci sono i film in cassetta o le figurine Panini, di indimenticata epoca veltroniana, ad aumentarne le vendite, almeno nel week-end. Né, tantomeno, i soldi delle donazioni volontarie da parte delle generose sezioni del “tempo che fu” a far tirare un qualche piccolo sospiro di sollievo; un refolo di vento ristoratore rispetto alla tempesta di debiti che affonda il giornale che fu di Antonio Gramsci.

Il Renzi silenzioso, intanto, si dice che sia in giro per l’Italia a cercare nuove promesse della politica da presentare all’elettorato italiano a tempo debito. Persone che rilancino il partito dopo le non esaltanti prove referendarie. Individui scelti, soprattutto, tra gli amministratori locali; quelli che dovrebbero assicurare una certa visibilità acquisita col ruolo, ed essere capaci, al contempo, a tenere l’orecchio a terra per misurare i sommovimenti popolari. Rumori, a volte, sconosciuti lì, sulla cima della piramide.

Rilanciare il partito è un comandamento da assolvere con dovizia. Ma, in questo progetto, pare non venga annoverato l’organo del Partito Democratico: “L’Unità”, appunto. E ad affermarlo è proprio il suo direttore attuale, Sergio Staino, chiamato da Renzi per sostituire il renziano di ferro Erasmo D’Angelis. Reo, quest’ultimo, di aver diretto un’Unità, si dice, un pochino troppo appiattita sul capo e in tremenda crisi di vendite.

Staino si lamenta dell’assenza del segretario. Di un abbandono costante del giornale da parte della dirigenza del partito. Abbandono che, delle volte, si sarebbe trasformato in chiaro ostracismo. Palpato con mano con il mancato invito alla manifestazione di Piazza San Paolo a Roma per il “Sì” al referendum. E rivissuto, negli stessi termini, ai tempi dell’ultima Leopolda.

Eppure le parole di Renzi erano state chiare, ed il piano politico netto. Rilancio del giornale. Ridenominazione delle poco fascinose “Feste Democratiche” con il loro vecchio nome di battaglia, “Feste dell’Unità”; molto più consono a motivare le vecchie truppe volontarie. Le quali, qualche anno fa, hanno dovuto veder distribuite alle loro feste le copie del quotidiano “Europa” al posto del loro foglio di appartenenza storico. Che, nel frattempo, era chiuso.

Il maggior azionista, Massimo Pessina, è probabile che non metterà un euro se non ci sarà una chiara linea editoriale. La quale, e non può essere altrimenti, deve avere i crismi politici che si addicano ad un organo di partito con l’ambizione di essere un mezzo al servizio dei militanti, sia per “informazioni di servizio” che per approfondimenti e dibattiti.

Ma tutto ciò non c’è. O almeno non spunta da un orizzonte da dove, di certo, si vede già minaccioso arrivare il mese di febbraio. Quando si terrà l’assemblea dei soci. La quale, senza ricapitalizzazione, dovrà provvedere alla chiusura. E la decisione unilaterale di Pessina di procedere a licenziamenti (anche senza ammortizzatori sociali, pare) dà segnali sconfortanti ai dipendenti.

Oltre a Pessina, l’altro socio del giornale è la fondazione del Partito Democratico, Eyu: acronimo di “Europa, Youdem e l’Unità”. La parte politica di questa storia, appunto. E che Massimo D’Alema ha ribattezzato, controllando forse gli organigrammi, “Fondazione Matteo Renzi”; osteggiandone fino alla fine l’entrata nella “Foundation for European Progressive Studies” (Feps). Di cui il leader maximo è presidente dal 2009.

Il Feps è una fondazione europea che, come ben descritto da Annalisa Chirico su “Il Foglio”, mette in Rete caminetti, pensatoi e organizzazioni legate al socialismo europeo. Farne parte significa accedere a rimborsi spese (finanziamenti) da utilizzare per iniziative sul territorio nazionale, elargiti dal Parlamento europeo. Ma D’Alema o non D’Alema, oggi la fondazione Eyu fa parte di Feps. Accedendo così ai soldi pubblici, che in Italia non sarebbero più “abbordabili” per sovvenzionare la politica. La situazione appare drammatica, in linea con la sofferenza generalizzata della carta stampata in Italia.

I tempi delle vacche grasse sono finiti. E per “L’Unità”, il cui bacino di utenza è stato irrimediabilmente eroso dalla crisi dei partiti, dalla fine delle sovvenzioni pubbliche e, in tempi non sospetti, dall’avvento del quotidiano “la Repubblica”, appare ormai un ricordo in bianco e nero la capillare diffusione dell’organo di informazione che fu del Partito Comunista Italiano.

E, a quanto pare, il peso specifico del giornale nella devastante campagna referendaria, conclusasi come sappiamo il 4 dicembre scorso, è stato irrisorio, o difficilmente quantificabile. Fatto, forse, non passato inosservato. Il deputato Andrea Romano, condirettore dell’Unità, afferma che il partito sta facendo tutto il possibile, richiamando i Pessina alle loro responsabilità. Perché, dice Romano, “l’Unità non è un autobus su cui si sale quando si vuole e si scende quando le cose non vanno bene [...]. I giornali hanno bisogno di una compagine aziendale solida”.

Vero. Ci vogliono i soldi (che non si sa se ci sono). Ci vogliono i lettori (che a quanto pare, invece, latitano). Ci vuole anche la parola del segretario. Anche solo per dire la parola “fine”. Oppure: “Contrordine, compagni!”.

Aggiornato il 07 aprile 2017 alle ore 18:12