Responsabilità politica: ricerca del “migliore”

mercoledì 7 dicembre 2016


Su “Il Sole 24 Ore” di ieri è apparso un articolo di fondo del direttore, Roberto Napoletano, il quale rimarcava la necessità di scelte politiche forti, anche se in un momento difficile, tali da non imbarcare l’Italia in governicchi “balneari” e di transizione, buoni per tenere la seggiola a qualcuno, ma non risolutivi dei nostri palesi, quanto atavici, problemi. Un paio di passaggi, però, fanno riflettere ancor di più rispetto, non solo ai problemi contingenti, ma anche a delle condizioni necessarie per uscire dalla crisi sistemica economica, politica e, forse, anche sociale.

Napoletano afferma: “Al Paese serve un governo politico con competenze tecniche che si misuri con i problemi veri. Il governo Ciampi, dopo il rischio bancarotta del ’92 e la manovra lacrime e sangue di Amato, fu in realtà un governo “politico” e chi lo guidava era un civil servant cresciuto nelle passioni mazziniana e azionista, ma conosceva come pochi le regole dell’economia e dei mercati”.

In un’epoca di svilente populismo, dove si alza preventivamente la bandiera dell’onestà, più simile ad un velo che dietro, spesso, non nasconde altro che il vuoto pneumatico, e che funge più da cortina fumogena che lente esaltante di pregresse capacità, le parole del direttore Napoletano esprimono l’esigenza, per la politica e per il Paese, di un carattere fondamentale per ogni tipo di buon governo. O che si tratti di un condominio, o di un ministero, la prima necessità per avere dei buoni risultati è la competenza di chi svolge la funzione.

Il richiamo ossessivo alla vera (o presunta) onestà, se per qualcuno può assumere anche un significato catartico, al massimo può assurgere a “precondizione” della politica, ma non a condizione della stessa. Anche perché se ogni “rivoluzione”, per non essere catalogata come effimero ribellismo, deve contenere un disegno, allo stesso modo ogni cambiamento deve essere sorretto dalla capacità di realizzarlo. E se pur volessimo portare all’esasperazione il nostro sentimento umanistico di immensa fiducia verso le capacità umane, la semplice “onestà” non ci assicura il risultato finale; e la sua ossessiva richiesta, pur se comprensibile, non ci dà garanzie.

Senza voler esaltare alcuna soluzione puramente tecnocratica, radicata nel culto dell’efficientismo, e spesso cieca verso i bisogni dell’uomo, si fa pressante l’esigenza di tornare a riflettere sul significato e il ruolo delle “élite”. La partecipazione volontaria alla vita pubblica del cittadino-elettore deve essere improntata alla ricerca della persona migliore e meglio attrezzata rispetto ad un ufficio. Come si è perso il concetto di meritocrazia, in questo Paese sembra che la ricerca del più bravo sia diventata secondaria. Ovvio, in tale discorso non può essere taciuta la responsabilità anche della “partitocrazia burocratica”, che ha svilito anch’essa il concetto di “élite”, ipertrofizzando l’apparato statale a scapito del rafforzamento della società civile, humus unicum per la coltivazione delle differenze, quanto delle capacità. Ma, se pur questo risulta storicamente vero, non deve far venir meno, prima di tutto, la ricerca della competenza ogni volta che siamo chiamati ad esprimere la nostra partecipazione. Essa è la nostra responsabilità politica principale, in un sistema rappresentativo, il quale distingue ruoli e forme della partecipazione, nella cosciente impossibilità “dimensionale” di un autogoverno. Luigi Einaudi ha affermato che “non si governa bene senza un ideale… come posso immaginare un politico che sia veramente grande […] il quale sia privo di un ideale?

E come si può avere un ideale e volerlo attuare, se non si conoscono i bisogni e le aspirazioni del popolo che si è chiamati a governare e se non si sappiano scegliere i mezzi atti a raggiungere quegli ideali?”. È in quel “scegliere i mezzi atti a raggiungere quegli ideali” che si trovano le coordinate della competenza necessaria a guidare un Paese con scienza e coscienza. Come Weber, noi cittadini dovremmo essere guidati dalla ricerca delle capacità nel politico, con le quali egli è in grado “di tenere in mano le redini degli eventi storicamente importanti”, guidato dalla “passione”, dal “senso di responsabilità” e dal “senso delle proporzioni”. La ricerca delle competenze passa, obbligatoriamente, attraverso la capacità di riconoscerle. La quale, inevitabilmente, richiede lo sforzo di uscire dalla logica perversa del “post-verità”; buona per crisi e abbagli emozionali, ma non per scelte basate sulla oggettività dei fatti. Capace solo di creare un “indistinto” e non di cogliere né le differenze, e né, tantomeno, le “capabilities”.

Come ogni libertà, anche quella politica porta con sé delle ineludibili responsabilità individuali. Essa inoltre, e ce lo ricorda Benjamin Constant, “affidando a tutti i cittadini senza eccezione l’esame e lo studio dei loro interessi più sacri amplia la loro intelligenza, nobilita i loro pensieri (trovandosi) immediatamente all’altezza delle funzioni importanti che loro affida la costituzione, scegliere con discernimento, resistere con energia, sfidare la minaccia, resistere nobilmente alla seduzione”.

Premesso che è da condividere Dahrendorf, per cui “la pura moralità non ha posto in politica, dove interessano le conseguenze politiche delle azioni”, è bene ritornare a concetti e pratiche fondamentali per il buon andamento di una comunità. I quali, forse, vanno ritrovati in mezzo tra una troppo spesso fideistica militanza, funzionale per mantenere in vita arrugginite burocrazie “a prescindere”; ed una delega sovente in “bianco”, e in sé deresponsabilizzante. E che oggi appare sottoscritta dal naufrago che, sentendosi all’ultima spiaggia, è disposto a tutto (e a tutti).

L’abbandono della partecipazione alla politica, con la presunzione di sostituirla con la sola presenza sui social network, non solo non permetterà mai di “togliere i veli e la maschera al potere”, ma non ci consentirà di riconoscere e selezionare una classe dirigente che abbia le capacità per governare ad ogni livello. Tra i frutti avvelenati dell’antipolitica c’è anche l’incompetenza. E un mondo dove il sapere perde il controllo sul fare, può essere mosso anche da buone intenzioni; le cui strade, però, sappiamo di cosa sono lastricate.


di Raffaele Tedesco