La grande lezione del referendum

Di che pasta fossero fatti Matteo Renzi e Maria Elena Boschi il referendum costituzionale lo ha dimostrato. Anche quei milioni di creduloni, nei piani alti e bassi della nazione, che se ne sono innamorati, dovrebbero averlo capito. Ma non ne sono sicuro.

Il signor Renzi e la signorina Boschi, catapultati inopinatamente al vertice dell’Esecutivo da un militante stagionato del bolscevismo, dell’eurocomunismo, del socialismo, tardivamente e malamente convertito bensì alla democrazia ma di rito italico, avevano proclamato “lippis et tonsoribus” che la riforma costituzionale, e l’incorporata legge elettorale, erano essenziali, tanto che, se non approvate dal Parlamento o respinte dal popolo, si sarebbero dimessi dal Governo e ritirati a vita privata. Insomma, per asseverare i loro propositi, avevano posto agl’Italiani una sorta di “questione di fiducia”. L’avevano posta, il primo con parole roboanti, la seconda con espressioni più caute, ma entrambi in modo drastico e ultimativo. Ebbene, non pare che intendano tenere fede alla parola data; non fino in fondo, almeno.

Dopo la batosta, Renzi ha fatto un discorsetto pieno d’involontaria ironia: “Ho perso, mi dimetto, però avevo ragione, gli elettori sono dei coglioni, non mi hanno capito, eccetera”. Resterà segretario del Partito Democratico? Non si sa. Cercherà un lavoro? Boh. Il signor Renzi, che non ha mai gestito una bottega, diretto un ufficio, coltivato un campo, quel militante stagionato e una maggioranza parlamentare frastornata lo elevarono al Governo della Repubblica, dove si comportò da scout nel campeggio estivo. Lì egli condusse seco la signorina Boschi, senza che risultassero specifiche competenze nella materia d’incarico, che, badate bene, è materia politicamente esplosiva la quale non può essere maneggiata senza conoscenze approfondite e professionali. Essendo stata decisiva quanto devastante la loro sconfitta, un’autentica Waterloo, mi sarei aspettato, dico la verità, le dimissioni immediate, intorno alle ore 0,30 del 5 dicembre, della signorina Boschi. Mi pareva normale che una donna con quella sperimentata presenza scenica comparisse in televisione e dicesse: “Ho perso. La mia riforma è stata rifiutata. Vi avevo legata la mia vita pubblica. Mi dimetto da ministra e da deputata. Torno al lavoro di avvocata fallimentare” (in senso proprio, non traslato, sia chiaro). Invece ci hanno informato che si era nascosta, rintanata direi, nelle stanze di Palazzo Chigi e che era stata vista riempire di lacrime gli occhi già rilucenti e piangere affranta.

Renzi, nel frattempo, è stato più attivo che mai: telefonate, twittate e su e giù dal Quirinale: dimissioni congelate. Del militante stagionato, che Renzi ha più volte additato come il vero padre della riforma, non sappiamo se nutra l’intenzione di lasciare il seggio di senatore a vita. Tuttavia, bisogna precisarlo, non aveva mai promesso di dimettersi. La pietra di paragone di cotanto italico costume è il signor David Cameron, che, avendo indetto un referendum di analoga importanza e perdutolo, si è dimesso da primo ministro e da deputato “con effetto immediato” ed ha definitivamente lasciato la vita politica inglese. Il motivo è nobile quanto la decisione: non intendeva ostacolare il nuovo governo né essere fonte di “grande distrazione e grande diversivo” nel Parlamento e nel partito.

Indro Montanelli notava che diventare britannici è impossibile, ma tentare fa bene comunque. Ecco, i nostri tre neppure ci provano.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:02