Il Dalai Lama a Milano: tra storia e realtà

Lasciamo stare per un attimo la visita del Dalai Lama a Milano, i supplizi che il popolo del Tibet ha sofferto dal 1950 (anno dell’occupazione da parte dell’esercito cinese di liberazione del popolo), la diluizione etnica e la distruzione sistematica di una cultura millenaria portatrice di una vocazione, anche politica, nonviolenta. Soffermiamo, per una volta, la nostra attenzione sull’immagine riflessa che il Tibet offre di sé al mondo occidentale, di fronte alla quale non si può provare che un forte senso di disagio e impotenza. Il Tibet è, infatti, una questione chiusa. Pechino ha vinto una battaglia politica che soddisfa le sue esigenze di promozione e mantenimento dell’unità nazionale. Lhasa è ormai una città cinese, impegnata nell’attrarre turismo interno e internazionale, e la maggioranza degli abitanti del Tibet è ora di etnia han. Nella pratica attuale, la cultura delle minoranze etniche in Cina cade sotto il diretto controllo del partito e del governo ed è celebrata combattendo qualsiasi aspirazione in senso autonomistico, invariabilmente bollata, specialmente dopo l’11 settembre 2001, come portatrice dei tre mali del “separatismo, estremismo e terrorismo”. Dal 1950, nonostante alcune dichiarazioni di intenti, la parte del mondo che si era impegnata a evitare la dissoluzione della nazione tibetana ha solo saputo piegarsi al dragone cinese e avviare con esso importanti forme di cooperazione economica.

La Cina è, infatti, un fondamentale partner commerciale per numerosi Paesi democratici e aziende multinazionali. Non stupisce quindi che i diritti umani siano finiti nel dimenticatoio delle pratiche burocratiche delle organizzazioni internazionali e nei resoconti di qualche convegno tematico. La classe politica europea ha uniformemente e costantemente dimostrato un’imbarazzante predisposizione a privilegiare i rapporti commerciali rispetto alla tutela dei diritti della persona. Nel Continente che vide nascere l’Illuminismo, la lotta nonviolenta di un popolo per l’autonomia (non l’indipendenza) del proprio territorio si è risolta al più in un’opportunità pubblicitaria per propalare la rassicurante illusione della pace a 360 gradi, usando il volto del Dalai Lama, Premio Nobel per la Pace, appunto. Il Tibet è una questione chiusa, dicevamo. Esiste però anche un Tibet esterno alla Cina, composto da enclave territoriali come il Bhutan, la regione del Ladakh in India e, soprattutto, dalla diaspora dei tibetani fuggiti dalla Cina, organizzata a Dharamsala, una piccola città nello stato dell’Himachal Pradesh in India, sede del Kashag, il governo tibetano in esilio. Nella diaspora, infatti, la cultura del Tibet vive nel rispetto delle tradizioni e dell’identità popolare. Uno degli aspetti che Pechino deve ancora risolvere per chiudere definitivamente la partita è quello che riguarda la reincarnazione del Dalai Lama. C’è un precedente: nel 1995 il Dalai Lama riconobbe dall’esterno la reincarnazione della seconda autorità spirituale del buddismo tibetano, il Panchen Lama. Era un bambino di sei anni, Gedhun Choekyi Nyima, nato in Tibet, ma Pechino lo fece sparire sostituendolo con un altro fanciullo. La maggiore preoccupazione del Dalai Lama, che sempre ha proposto una “genuina” autonomia del Tibet all’interno della Cina, rivolgendosi in primo luogo ai cinesi di etnia han, è inerente proprio al futuro della linea storica delle successioni dei Dalai Lama. Se dovesse venire a mancare questa figura, scippata dalla burocrazia nazionalistica di Pechino, verrebbe a mancare l’identità del Tibet, il motivo principale di aggregazione della diaspora.

Negli anni Novanta del secolo scorso, il Partito Radicale Transnazionale promosse numerose iniziative per la libertà del Tibet occupato e per la democrazia in Cina, tra cui anche quella per la liberazione del giovane Panchen Lama, il più giovane prigioniero politico del mondo. Queste campagne politiche sono state alla base di un duraturo rapporto di amicizia tra Marco Pannella e il Dalai Lama. Un’amicizia basata non solo su un comune sentire, ma anche su affinità profonde di natura spirituale. Il buddismo, specialmente quello di estrazione tibetana, non è una religione, ma un’antropologia, che pone al centro della propria riflessione l’uomo e non Dio. Un’amicizia importante, mantenuta viva nella comune riflessione che i diritti umani sono centrali, che assoluta deve esserne la tutela, e che solo con il dialogo nonviolento si può giungere alla pacificazione politica dei rapporti con Pechino. Un’ipotesi, priva di accenti ipocriti, che implica opposizione dura e netta contro il dialogo strumentale tra oligarchie cinesi e occidentali e la denuncia della mistificazione che, in nome dei principi democratici del libero scambio tra i popoli, spinge a favorire i rapporti economici e commerciali. Un’ipotesi che, tradotta in proposta politica, aprirebbe finalmente la via alla soluzione giuridica della questione tibetana. Una proposta che il Partito Radicale Transnazionale pose all’attenzione della politica internazionale con lo sviluppo di un “Satyagraha” nonviolento per l’apertura dei negoziati tra Cina e Tibet sotto l’egida delle Nazioni Unite. Una tesi tutt’oggi valida che, se accettata, definirebbe in tempi relativamente brevi la soluzione della questione tibetana permettendo il raggiungimento dell’obiettivo naturale della convivenza tra le etnie tibetana e han sul Tetto del Mondo.

La visita del Dalai Lama a Milano offre la possibilità alla politica italiana, e non solo, di abbandonare le mistificazioni e dare a questa proposta gambe forti per riportare la difesa dei diritti della persona al centro della propria azione. La domanda che ci poniamo è se il Comune di Milano saprà approfittare di quest’occasione dimostrando di non volersi piegare ai desideri dell’ambasciata cinese di Roma, coinvolgendo, magari, la propria comunità cinese in un’adeguata riflessione sui rapporti sino-tibetani, o se, invece preferirà cercare il consueto compromesso tra idealità e pragmatismo, svincolandosi all’ultimo secondo dalle responsabilità istituzionali. Una domanda che probabilmente rimarrà senza risposta e che ci porta alla mente una riflessione di Michel Foucault: perché ci importa di sapere che cosa sia la vera democrazia? Chiariamoci piuttosto come vogliamo che sia.

(*) Esponenti del Partito Radicale

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 22:03