Il magistrato: non solo   “tecnico” del Diritto

L’Opinione intervista Giovanni Cordini, professore Ordinario di Diritto pubblico comparato e direttore del Dipartimento di Scienze politiche e sociali nell’Università degli Studi di Pavia e presidente del Club dei giuristi dell’Ambiente.

In questi giorni è esplosa la polemica su alcune dichiarazioni di magistrati a proposito della riforma costituzionale. Taluni magistrati, ricordiamolo, hanno aderito ai comitati per il “No” al referendum di ottobre altri potrebbero aderire a quelli per il “Sì”. Come si concilia in un magistrato il diritto di opinione, previsto dall’articolo 21 della Costituzione con il dovere di essere “terzo ed imparziale” (articolo 111)?

La libertà costituzionale di manifestare liberamente il proprio pensiero si estende anche ai magistrati che sono dei cittadini come tutti gli altri. Il referendum consente un esercizio diretto della sovranità popolare per cui non è legittimo obbligare il magistrato ad assumere una condizione di assoluta neutralità mentre l’appartenenza ad un partito e la militanza in uno schieramento politico non sono compatibili con l’alta funzione che Egli è chiamato a svolgere. Mi sembra opportuno l’invito alla cautela che il vicepresidente del Csm ha rivolto ai componenti del Consiglio, confermando, tra l’altro, l’esigenza di evitare, da parte dei magistrati, toni e modalità di espressione del pensiero inappropriati in quanto accentuati dallo scontro politico e dall’appartenenza a fazioni. Il magistrato, in ogni ordinamento democratico, svolge un ruolo delicato ed importante che richiede competenza, sobrietà ed equilibrio. Per questa ragione i legislatori hanno sempre indicato delle regole e dei limiti affinché l’esercizio della funzione giurisdizionale risultasse indipendente rispetto agli altri poteri dello Stato, assicurando ai magistrati talune garanzie e richiedendo, agli stessi, dei comportamenti conseguenti. Queste regole astratte devono trovare, di volta in volta, una concreta applicazione mediante i comportamenti e le attitudini di uomini che operano in un ben preciso contesto storico e culturale, che convivono, come tutti, con i loro limiti e le loro debolezze, per cui al formale dato giuridico devono corrispondere dei comportamenti concreti, delle sensibilità personali, delle attitudini che Piero Calamandrei, in un famoso “elogio”, sempre ricco di suggestioni e d’insegnamenti, riconduceva ad un alto senso (quasi religioso) della loro “missione di giustizia”.

I Padri costituenti stabilirono che i magistrati si distinguessero fra loro solo per diversità di funzioni, articolo n. 107 della Costituzione. È ancora attuale una simile disposizione a quasi trent’anni dell’entrata in vigore dell’attuale Codice di procedura penale, che prevede un processo di tipo accusatorio con la parità fra accusa e difesa?

Che parità può esserci quando il pubblico ministero non è l’avvocato dell’accusa ma un magistrato come il giudice?  Il processo “accusatorio”, introdotto dalla riforma costituzionale del 1999 (designata come “giusto processo”) non impone, di necessità, la “separazione delle carriere” e la definizione di un diverso stato giuridico tra giudici e pubblici ministeri, ma può giustificare, semmai, una più rigorosa distinzione delle funzioni esercitate. Questa differenziazione può essere resa concreta dall’ordinamento giudiziario. Il Pubblico Ministero in Italia dipende esclusivamente dalla legge e non dal potere legislativo. La Costituzione determina, in modo irrefutabile, la soggezione del pubblico ministero alla sola legge, ove precisa che lo stesso “gode delle garanzie” stabilite dalle norme sull’ordinamento giudiziario e che, tali norme, così come quelle relative ad ogni magistratura, sono “stabilite con legge”. Nell’ordinare le funzioni riferite al pubblico ministero sarebbe bene tenere conto delle mutate esigenze prospettate proprio dalla riforma del processo. A tale riguardo viene in essere la necessità di assicurare a tutti i magistrati una formazione culturale e professionale adeguate rispetto alle mutate esigenze funzionali, sia monitorando e migliorando le selezioni per il reclutamento, sia adottando modelli di costante aggiornamento professionale. A queste esigenze si devono accompagnare l’esercizio responsabile della funzione e la piena consapevolezza, di ciascuno, circa il proprio ruolo. La riforma ha stabilito delle regole e indicato dei confini che non sono compromessi in ragione di uno status, ma che possono risultare indeboliti se, nel corso del processo, si realizzano delle sovrapposizioni e delle confusione dei ruoli.

Altro tema assai dibattuto è la prescrizione del reato. Norma di diritto sostanziale che esiste già nel diritto romano. Non crede che interrompere la prescrizione, come vorrebbero molti magistrati, con il rinvio a giudizio dell’imputato, cozzi con “la ragionevole durata del processo” stabilita dalla Costituzione? Allungare “sine die” i tempi del processo, senza prevedere, di contro, alcun obbligo temporale per il magistrato per arrivare a sentenza, non rischia di creare un Paese di imputati a vita?

La Corte costituzionale ha più volte ribadito che il legislatore può legittimamente introdurre delle deroghe alla regola generale sul computo delle prescrizioni. La Corte ha osservato che nell’istituto della prescrizione non può scorgersi un «momento necessario di attuazione o di salvaguardia dei principi costituzionali» (sentenza n. 455 del 1998, ordinanza n. 288 del 1999, sentenza n. 413/2014). Il legislatore, nell’esercizio della discrezionalità che gli viene riconosciuta, può stabilire dei termini di prescrizione più brevi o più lunghi di quelli ordinari, ove ciò sia giustificato da specifiche ipotesi criminose e sulla base di valutazioni correlate alle caratteristiche proprie degli illeciti (ad esempio il tipo di reato e la pericolosità della condotta) e alla ponderazione degli interessi coinvolti. A giudizio della Corte l’eventuale estensione del termine di prescrizione deve essere giustificata tanto in ragione del particolare allarme sociale generato da alcuni tipi di reato (rendendo accettabile una “resistenza all’oblio” proporzionata alla risposta sanzionatoria) sia dalla speciale complessità delle indagini richieste e dalla laboriosità necessaria per verificare la sussistenza o meno dell’ipotesi accusatoria, in sede processuale, cui corrisponde, quasi sempre, un fisiologico allungamento dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva. La discrezionalità del legislatore, in ogni caso, deve essere esercitata “nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee”. Per un rigoroso ossequio ai principi costituzionali sarebbe preferibile stabilire che la prescrizione può cessare di decorrere all’avvio effettivo del processo, piuttosto che al momento del “rinvio a giudizio” dell’imputato. Sui tempi di un procedimento possono incidere anche alcune tecniche difensive dilatorie, attuate, talvolta, con la principale finalità di ottenere la prescrizione, tuttavia l’anomalia tutta italiana della dilatazione temporale ad avviso di molti competenti commentatori, dipende, non tanto dalle garanzie procedurali bensì dall’organizzazione del sistema giudiziario, dalla dislocazione e dal numero degli addetti e dall’assegnazione delle risorse finanziarie. Prima d’introdurre altri correttivi sarebbe bene riflettere su tali limiti e porvi qualche rimedio. Chi si proponga di affrontare seriamente la questione, infatti, dovrebbe tenere nella giusta considerazione tutti questi fattori.

Sono sempre di più i magistrati in politica. Ormai non è possibile formare una giunta comunale senza almeno un paio di toghe. Ci sono magistrati sindaco (De Magistris a Napoli), presidenti di Regione (Emiliano in Puglia), sottosegretari di Stato (Ferri alla Giustizia), presidenti di Authority (Cantone all’Anac). Non teme che ciò sia in contraddizione con l’articolo 104 della Costituzione “la magistratura è un Ordine autonomo ed indipendente da ogni altro potere”? Come potrà sentirsi un politico di uno schieramento avverso ad essere giudicato, ad esempio, dal dottor Emiliano, una volta che questi avrà fatto ritorno in magistratura?

I magistrati che “scendono nel campo della politica”, per tutto il tempo in cui perdura tale impegno non possono esercitare le funzioni giudiziarie (secondo le diverse formule previste dalla legge). Formalmente, dunque, la Costituzione non viene elusa dal magistrato che svolge un incarico politico. Sul piano dell’opportunità, tuttavia, penso che sarebbe bene rafforzare questa condizione prevedendo che l’impegno diretto in politica (per altre funzioni di garanzia questo ragionamento mi sembra meno stringente) debba comportare un definitivo abbandono della funzione originaria.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:54