Brexit: voglia di comunità

Paradossalmente la spiegazione dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea si spiega con la voglia di maggiore “comunità” del popolo britannico. “Voglia di comunità” titola un famoso libro di Zygmunt Bauman. Comunità come fattore di sicurezza, nel mondo dell’insicurezza globale. Più grandi, lontani e indomabili, appaiono i rischi globali, più forte è la ricerca di rifugio nel fortino delle comunità locali, conosciute e sperimentate, quelle che hanno dato sicurezza fin qui ai padri e promettono certezza per il futuro, a cominciare dalla comunità nazionale.

Così ha vinto l’Inghilterra dei boroughs e delle counties, l’Inghilterra della popolazione anziana e rurale, contro la Gran Bretagna giovane e metropolitana. Ha vinto la voglia delle comunità nazionali e locali contro la lontananza e l’astrattezza dell’Unione. Ha vinto la paura contro il coraggio. Il vecchio e il collaudato, contro il nuovo, percepito come distante, incerto, inaffidabile e pieno d’insidie.

Il primo, e il più grande, errore di David Cameron è quello di aver indetto un referendum non richiesto e non disciplinato. Il secondo, aver calibrato la campagna referendaria soltanto sui temi economici.

Si sa, il referendum evoca emozioni non solo equazioni. Cameron avrebbe potuto trovare anche qualche ragione ideale, per giustificare il remain, dato che l’Europa non è solo banche e burocrazia. Ma, ormai è fatta. La ripetizione referendaria e il ricalcolo di opzioni più meditate, che pur qualcuno avanza, farebbe solo perdere la faccia alla democrazia più antica del mondo. La Gran Bretagna segua la sua strada. Se pensa di poter continuare a godere dei vantaggi del mercato unico, sottraendosi ai doveri propri dell’appartenenza a una comunità economica e politica, si sbaglia di grosso.

I capi di Stato e di Governo di Germania, Francia e Italia si sono già incontrati lunedì per decidere il da farsi. Adesso hanno il compito di ridare senso alla comunità delle origini. Se le ragioni del Trattato di Roma nel 1957 sono ancora buone, si può andare avanti, altrimenti se ne prenda atto. Gli Stati fondatori sono chiamati a ribadire se è ancora valida l’idea che la “promozione della pace, del benessere dei popoli, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza e dello Stato di diritto”, sono maggiormente garantiti attraverso l’integrazione dei popoli europei. Se la risposta è positiva, il messaggio va reso visibile e percepibile ai popoli dell’Unione, con iniziative concrete, che tocchino non solo l’economia ma anche le politiche sull’emigrazione, il lavoro.

Il terrorismo, la criminalità organizzata, la mondializzazione della finanza, i processi d’immigrazione di massa, l’aggressività dell’Islam radicale, la dimensione globale del web, la diffusione delle epidemie, la dimensione mondiale della salvaguardia dell’ambiente, sono tutti fenomeni non dominabili dalla capacità d’intervento dei singoli Stati. Ciò nonostante, il senso della nazionalità inglese ha prevalso, perché la sovranità dello Stato è stata percepita senza fatica, appoggiandosi sugli istinti della patria, mentre le funzioni dell’Unione sono risultate estranee alla massa dei cittadini, come se riguardassero soltanto qualche grande interesse. Del resto, all’Europa manca ogni e qualsiasi senso di patriottismo.

Gli Stati, se ci credono, devono ridare un’anima all’Europa, a partire dal rigetto totale delle “dolorose esperienze” che l’hanno divisa nel secolo scorso. È a partire da queste nette bocciature della storia che si può identificare ancora un’anima per l’Europa. Invece, nei Trattati è prevalso quasi sempre un approccio empirico, nella convinzione che l’identità europea sarebbe stata il frutto, non la causa della costruzione dell’Europa.

Dopo il 23 giugno, il motto “facciamo l’Europa, poi faremo gli europei” non basta più. La strategia “funzionalista” - così si chiama - che ha prodotto qualche risultato puntando esclusivamente sul rafforzamento delle istituzioni, non è più buona. L’Europa è inerte e immobile, mentre tutto frana al di fuori di essa: nel Mediterraneo dove affondano masse di migranti, nelle periferie dove si registra il progressivo abbassamento del livello di vita dei ceti più poveri, nel rivendicazionismo dei nazionalismi statali.

Natalino Irti, di ciò consapevole, in un prezioso piccolo libro del 2008, scriveva: “Il pragmatismo non indica fini lontani, non educa le volontà, non stringe menti e cuori in un disegno storico. Non è proponibile come ideale di una comunità, cioè come ragione unificante del convivere”.

Al punto in cui siamo ci vuole chiarezza sui fini, non solo pragmatismo. Si dica chiaramente che il modello federale, così come lo conosciamo, non è un modello ripetibile, perché i fattori della “nazionalità” sono ineliminabili e possono costituire la ricchezza non il limite dell’Europa. Gli Stati, per parte loro, riconoscano apertamente che, difendendo l’Unione non fanno altro che difendere la prosperità crescente delle loro regioni, delle loro contee, dei comuni, della loro nazionalità.

Alexis de Tocqueville scriveva: “Lo spirito pubblico dell’Unione (si riferiva agli Stati Uniti) è in certo modo il riassunto del patriottismo provinciale” delle loro comunità. I Paesi fondatori della Cee sono chiamati a rendere visibile l’identità patriottica complessiva dell’Unione europea, solo così se ne eviterà la disgregazione.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:58