Teramo: lettera  ai compagni radicali

Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma i segnali che sono venuti dalle urne il 19 giugno sono chiari, perfino semplici nella loro lettura (anche se certamente complessi, per quel che riguarda il capire le ragioni del big bang, univoci cose sostanzialmente sono, pur di fronte a realtà differenti e spesso opposte). Ma alla fine: il Movimento 5 Stelle ne esce più che bene. Beppe Grillo, piaccia o no, ancora occupa un “vuoto”; e il problema più che “l’occupante” è il fatto che c’è questo vuoto, come e perché si è creata una simile situazione; chissà, forse è una cruna d’ago in cui si deve passare…

Altro fatto incontestabile è che ha perso Matteo Renzi; e il Presidente del Consiglio ha un bel dire che si tratta di un voto amministrativo, che non si mette in discussione l’azione di Governo. Avrebbe ragione se la poltrona di Palazzo Chigi e quella di segretario del Partito Democratico fossero occupate da due persone diverse. Essendo, Renzi, sia capo del Governo che capo del partito, e comportandosi da “bullo” sia lì che là, il pollice verso lo riguarda. A Roma, l’aspirante sindaco sconfitto Roberto Giachetti, con stile e generosità si è addossato ogni responsabilità. Un segretario di partito con una briciola di stile sarebbe subito insorto, si sarebbe subito affiancato a “Bobo” ed a Fassino, e avrebbe replicato: anch’io, e molto più di voi, sono responsabile dell’accaduto. Ma lo stile è come il coraggio, se non c’è, non c’è selfie o Twitter che te lo possano dare.

Se si perde a Roma e a Torino, a Trieste e a Napoli, e perfino a Sesto Fiorentino, vale la regola del pesce marcio. È dalla testa che bisogna partire. C’è poco da fare (e dire). Renzi raccoglie quello che ha seminato. Una sconfitta pesante, resa più acuta dall’alto numero di astensioni; è un elettorato che una volta, in buona parte, avrebbe dato fiducia e credito al centrosinistra. Urne amarissime, insomma, per Renzi che da questo voto esce con le ossa rotte.

Altro sconfitto: Silvio Berlusconi. Si consoli pure con la vittoriosa sconfitta a Milano o con quella a Trieste, ma è magrissima consolazione, e alla fine lascia il tempo che trova. Perde anche la Lega di Salvini. I generale: un popolo scontento, un popolo deluso, un popolo incavolato, ha votato come può, come gli viene concesso da un regime che riesce insieme a essere colosso d’argilla e colosso d’acciaio. In questa congiuntura, pensieri che bizzarri si insinuano, si fanno strada, magari con il pretesto di una data. Per dire: il 21 giugno di centoundici anni fa, a Parigi, nasce Jean-Paul Sartre. Una vita, la sua, costellata da una quantità di scelte politiche discutibili, contraddittorie, infelici; comunque un personaggio, e per quel che mi riguarda, indimenticabile una certa manifestazione dove, complice André Glucksmann, si “riconcilia” con un vecchio amico di gioventù con cui ha rotto in modo clamoroso, Raymond Aron; i tre si mobilitano in favore dei boat people che fuggivano dal Vietnam ormai hociminizzato, rosso e comunista. Allora la nostra Marina militare fece un qualcosa di bello e giusto, non solo di buono. È il Sartre che conosce bene Marco Pannella, fin da quando Pannella, a Parigi, lavora per "Il Giorno"; e ad una giornalista francese Sartre confida: “Un Partito Radicale Internazionale che avesse, ad esempio, una sezione italiana, una francese, eccetera… Conosco Pannella, ho visto i radicali italiani e le loro idee, le loro azioni; mi sono piaciuti. Certamente sarei amico di un simile organismo internazionale…”. Sartre, senza sapere, in qualche modo, forse, già prefigura il Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito che grazie a Pannella poi prende vita sia pure in forma embrionale. Chissà: anche lui, come Eugene Ionesco, Elio Vittorini, Pier Paolo Pasolini, Leonardo Sciascia e tanti altri, aveva compreso; aveva “visto” là dove tanti si limitano a guardare.

Adriano Sofri giorni fa è chiesto: e ora, radicali? Ora senza il conforto della critica e il consiglio (anche) della dura e rude polemica di Pannella? Domande che non solo Sofri si pone. Importano poco, qui, le “riflessioni” spesso risultato di senili livori, i richiami da “prefetto”, se sia o no il tempo d’accontentarsi d’una manciata di lenticchie in cambio di legittime ambizioni. S’usa dire: poche idee e confuse. Magari, qui siamo nel campo della confusione e basta. Lasciamo che chi vuole avvitarsi su questo terreno la faccia, e si impantani. Non è da qui che verranno le risposte alla domanda su cosa fanno e faranno, cosa potranno e sapranno fare i radicali del Partito Radicale Nonviolento, Transnazionale, Transpartito, nonostante lo tsunami provocato dalla morte di Pannella, evento da tempo annunciato, e che comunque quando è avvenuto è stata una indiscutibile mazzata per quanti gli hanno voluto bene?

Su quei radicali che amano definirsi pannelliani senza “se” e senza “ma”, grava una pesante, onerosa responsabilità, un compito difficile, che certamente non si esaurisce nella conquista di recupero di questo o quello sgabello in un municipio per quanto di prestigio, o in una consulenza di concreta incomprensibilità; no, qui si parla di qualcosa di più ambizioso, di una “visione” che va ben al di là di una sia pur astuta gestione di un precario esistente. Si parla di un patrimonio, di valori non tanto da gestire, quanto da condividere, nel senso letterale: e cioè la partecipazione comune a un progetto, una tensione d’insieme, un essere d’accordo, l’avere un’esperienza che affratella e al tempo stesso è vissuta da più punti di vista, e per questo è più ricca, fertile di discernimento, emozioni comunicanti. È “l’unione” di bruniana memoria, che ci viene ricordata in una raccomandabilissima raccolta di saggi dal filosofo Aldo Masullo, il prezioso “Giordano Bruno maestro di anarchia” (edizioni Saletta dell’Uva, 120 pagine - 10 euro). Se vogliamo, l’unione laica delle forze che il poco più che ventenne Pannella oppone all’unità delle forze laiche di un Palmiro Togliatti, da tempo già “Il Migliore”.

Ma si può prendere come punto di riferimento il “non mollare” salveminiano e rossiano; e anche quel “Spes contra Spem” che qualcuno in Vaticano mostra di comprendere assai più e meglio di tanti altri; quell’aforisma di Henri Bergson che Pannella ha fatto suo da sempre, una sorta di manifesto di vita: “La durata è la forma delle cose”. Un metodo che è forma e sostanza insieme, fini qualificati dai mezzi usati, la nonviolenza coniugata con il diritto. Il diritto umano e civile alla conoscenza, il diritto al diritto.

Proprio alla luce del 19 giugno, di quello che rivela e ha mostrato, c’è un appuntamento che molti farebbero bene a tenere d’occhio, e non solo chi mostra simpatia e adesione ai radicali e alle cause che agitano. Anche gli “altri” farebbero bene a prestare un po’ d’attenzione: oggi e domani, ad un mese circa dalla morte di Pannella, i radicali si daranno appuntamento nella sua città, Teramo. Ci sarà senz’altro un momento di “ricordo”, di celebrazione, ma sarà soprattutto un’occasione politica.

Il tesoriere del Partito Radicale, Maurizio Turco, ha “postato” una lunga lettera di convocazione. Ne riporto il paragrafo finale, che si conclude con un impegno preciso: “Ripartiamo da Teramo alzando tutte le nostre bandiere ed immaginando un percorso che porti ad un Congresso nel quale si possano prendere in considerazione le varie opzioni che abbiamo davanti, a partire dalla situazione concreta in cui vive oggi il partito. E dovremo farlo senza (fisicamente) Marco. Non è la prima volta che dobbiamo affrontare una prova così difficile, sarà quindi utile rintracciare le varie soluzioni adottate nel tempo cosicché, anche in questa occasione, il contributo di Marco sarà assicurato”.

Chissà: potranno forse cominciare a spuntare i primi germogli di una lunga, lenta, faticosa semina; i primi ingredienti di quel necessario vaccino da opporre ai veleni di cui un po’ tutti siamo, volenti o nolenti, vittime.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:50