La Gb abbatte il totem dell’Unione

La Gran Bretagna esce dall’Unione europea. I sudditi di sua maestà britannica, chiamati a esprimersi sulla Brexit, hanno scritto una pagina di storia. Per le élite continentali, comprese quelle nostrane, è stato uno choc. Ma, comunque la si pensi, è stata una magistrale lezione di democrazia. Dovremmo farne tesoro. Il popolo, lungi dall’essere quella massa stupida, incapace di prendere decisioni per il proprio bene, quando sente minacciata la sua libertà sa essere coraggioso. Come lo sono stati gli inglesi a non lasciarsi intimorire dalle minacce degli eurocrati di Bruxelles che prefiguravano sfracelli in caso di vittoria del “leave”.

Benché, da italiani, siamo rammaricati della decisione britannica di abbandonare il carrozzone europeo al suo destino, non possiamo non dirci invidiosi di quella forma di governo che non teme di sottoporsi al giudizio del suo popolo. A noi un tale privilegio non è concesso: la Costituzione italiana non prevede che si possano svolgere referendum sui trattati internazionali. I Maître à penser di casa nostra ritengono che sia giusto non affidare al popolo la responsabilità delle scelte vitali e per questo plaudono alla pessima riforma costituzionale voluta da Matteo Renzi che è attenta a non rimuovere le antiche proibizioni. Ma questi poveri illusi non si rendono conto di quanto profondo stia diventando il solco tra le élite eurocratiche e i popoli.

I britannici hanno votato contro questa Europa che non piace a loro come non piace a noi. Sul banco degli accusati del tribunale della Brexit è salito il modello di Super- Stato europeo soggiogato agli interessi dei mercati finanziari. La sua sconfitta nelle urne è un assist servito alla politica perché si riprenda il controllo del governo dei popoli comunitari, oggi usurpato dalle ferree logiche dell’economia della globalizzazione. Per andarsene dall’Ue hanno votato i lavoratori, i ceti medi depauperati dalla crisi e le fasce sempre più larghe d’incapienti della società britannica. Piuttosto che insultarli, le establishment di Bruxelles dovrebbe prendersela con se stesso per aver disperso un patrimonio di fiducia e di ottimismo che apparteneva alla grande maggioranza dei cittadini europei fino a pochi anni orsono. Dovrebbero interrogarsi se l’aver spalancato le porte alla mondializzazione selvaggia sia stata l’idea giusta. Dovrebbero domandarsi se con le politiche dell’austerity e del controllo poliziesco sulla circolazione monetaria si sia realizzato il primo principio di ogni teoria liberale: il benessere delle nazioni e la felicità dei cittadini. I britannici non sono stati preda di un delirio populista: semplicemente si sono resi conto che con questa Europa si sta peggio, si rischia il futuro e si è meno sicuri. Non sono brutti, sporchi e cattivi: sono la prima onda di un maremoto che dalle sponde del Tamigi investirà tutta l’Europa. E questa Unione non ha lo spirito giusto per costruire argini efficaci.

Fin quando a Bruxelles ci si preoccuperà del diametro delle vongole piuttosto che del benessere dei cittadini, nessuna integrazione sarà possibile. Si vedranno in giro per l’Europa sempre più uomini e donne che, pur sotto opposte bandiere, saranno uniti dal grido: non ci stiamo. Fin quando circoleranno per le stanze del potere truci personaggi, come il ministro dell’economia tedesco Wolfgang Schäuble, che avranno l’arroganza, come l’ha avuta lui alla vigilia delle elezioni nazionali in Grecia lo scorso anno, di dire: “votino chi vogliono tanto non cambia niente”, ci sarà da qualche parte qualcuno che si ricorderà di quanto bella e preziosa sia la parola “libertà”. L’uscita della Gran Bretagna ci procurerà parecchi problemi, ma per la democrazia il 23 giugno resterà per sempre una festa, non un funerale. Evviva!

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:59