Raggi su Roma e nubi sul Governo

La vittoria della pentastellata Virginia Raggi non apre soltanto nuove prospettive per la Capitale, ma destabilizza non poco gli equilibri nazionali legati, fino adesso, ad una sostanziale alternanza fra centrodestra e centrosinistra. La sconfitta di Giorgia Meloni al primo turno delle elezioni per il sindaco di Roma, certamente avvantaggiata dalla prassi “disturbativa” prima di Guido Bertolaso, poi di Alfio Marchini e, infine, di un Partito Democratico che, nei seggi, si è impegnato ampiamente per farla retrocedere, ha portato alla vittoria di un “terzo polo”.

La candidata del Movimento 5 Stelle, Virginia Raggi, giovane avvocatessa impegnata da anni nel movimento politico fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, ed estraneo a qualsiasi matrice storica di destra o di sinistra, ha beneficiato della retrocessione della Meloni e dalla contesa con il candidato del Pd, Roberto Giachetti.

In pratica, i romani che avevano votato la Meloni, non ritrovandosela più al ballottaggio, e non avendo altri interlocutori politici, tra lo “stare a casa” e il “votare Giachetti”, hanno dato la loro preferenza alla Raggi. Probabilmente se il Pd si fosse impegnato di più a sconfiggere la Raggi piuttosto che la Meloni, avrebbe avuto una chance in più al Campidoglio, ma così non è stato: hanno prevalso antipatie e interessi di parte. In tal modo ora si ritrovano una marziana (vera) al Comune di Roma, e veramente non sanno cosa fare.

La “sindaca”, come già la chiamano i romani, è a mio avviso l’inizio della vera vittoria del M5S in Italia. Il governo della Capitale è, per una certa logica politica, da doversi affidare a un sindaco che sia dello stesso partito politico del Presidente del Consiglio, onde facilitare il rapporto tra le istituzioni nazionali e la Capitale. Fermo restando che, secondo il sottoscritto, a Roma servirebbe un Governatore, con uno status giuridico preciso, e non soltanto un sindaco, il passaggio di consegne tra l’ottimo prefetto Tronca (che ci saremmo augurati di avere per un po’ più di tempo) e la Raggi, apre una nuova stagione politica romana e nazionale. Sebbene Virginia Raggi avesse prospettato, durante la sua campagna elettorale, la tassazione dei beni e delle proprietà ecclesiastiche (le parrocchie?) nella Capitale, inimicandosi parte dei “papisti” che avevano dato il loro voto ad Adinolfi, ha fatto la sua prima uscita con la La neo-sindachessa (o sindaca, già si sprecano le futili controversie in merito) si è detta contraria alle Olimpiadi in una città già così indebitata come Roma (13 miliardi); poi, senza glissare sulla questione dei campi rom, ha abbracciato la linea del “superamento graduale”, che prevede un censimento socio-economico dei rom e quindi l’individuazione di sacche di reddito e patrimoniali da tassare. Per ciò che concerne la mafia e il malaffare, ha segnalato che le misure più urgenti e immediate sono quelle di applicare le regole che già esistono e che, spesso, vengono ignorate. La Raggi, ben sapendo della distanza che corre tra il M5S e il Pd del segretario e Premier Matteo Renzi, si è da subito pubblicamente auspicata lealtà e collaborazione da parte del Governo; una misura che Renzi ha intelligentemente accolto, dichiarandosi fiducioso ed ammettendo gli errori del suo partito. Ciò non è certo bastato alla minoranza Pd scettica sulla linea di Renzi, soprattutto dalemiani e bersaniani, che già si riuniscono per decidere non più se, ma quando detronizzare il “berluschino”. A livello nazionale Virginia Raggi ha aperto la strada del M5S alla Presidenza del Consiglio.

Le strade a questo punto sono due: il referendum, fortemente voluto da Renzi, sulla riforma costituzionale, andrà bene (per il Pd), il Governo ne sarà rafforzato e nasceranno una serie di cause ed effetti che provocheranno entro un anno o poco più le dimissioni della Raggi dal Comune di Roma. Viceversa, la Costituzione resterà quella che è, il fronte interno del Pd si spaccherà definitivamente. Renzi sarà costretto a dimettersi, vi sarà un nuovo Governo di “larghe intese” in cui i principali attori istituzionali saranno costretti a far entrare i Cinque Stelle. Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista saranno i principali “papabili” per importanti ministeri, ma il Movimento, che mira logicamente alla presidenza, si rifiuterà di “partecipare” all’ennesimo “inciucio”, anche qualora gli assicuri un premier pentastellato. A questo punto i membri del direttorio, con in testa Grillo, saranno divisi se prendersi, da un lato, il Governo da subito, come fece Renzi, oppure saltare l’ennesimo giro per andare a libere elezioni.

Un più interlocutorio Pier Luigi Bersani, assieme al presidente del gruppo misto Pisicchio, tendono la mano al M5S, proponendo loro di modificare insieme la legge elettorale. Ma il Movimento non ci sta. Loro hanno già presentato un’alternativa all’Italicum con il deputato Danilo Toninelli: un proporzionale con forte correttivo maggioritario, la scomparsa delle coalizioni, collegi piccolissimi, alto sbarramento che arriverà al 6-7 per cento a seconda del contesto territoriale. Vien da sé che una tale legge permetterà ad un’unica forza politica di governare l’Italia in maniera decisionista. Per i Cinque Stelle il “No” al referendum prossimo venturo permetterà di ripartire con la loro proposta per una nova legge elettorale ma, per questo, converrà loro far durare Renzi sino alla fine del suo mandato e, contemporaneamente, “vigilare” sulla giovane Raggi affinché, forze politiche e non politiche, spesso di oscura derivazione, non tramino per farla cadere.

Aggiornato il 08 ottobre 2017 alle ore 21:47